Autore
Sergio LenciAnno
1982 -1987Luogo
NapoliTempo di lettura
10 minutiColpo alla nuca. Memorie di un sopravvissuto.
II venerdì 2 maggio 1980 – una giornata inondata di quel sole tiepido e carezzevole che è proprio dell’incipiente primavera romana – era un venerdì particolare. Infilato tra la festa del 1° maggio e il sabato, costituiva un cosiddetto «ponte», che rendeva possibile una lunga vacanza dal giovedì al lunedì. Con i miei collaboratori di studio avevo deciso di concederci questo «ponte» e ci eravamo salutati il mercoledì sera. Per me personalmente la vacanza consisteva in un viaggio a Foligno dove avrei incontrato, per ragioni di lavoro e di svago, una famiglia di amici: un architetto con il quale a volte lavoro, la moglie e le figlie, che mi accolgono sempre con affetto e mi permettono una parentesi di serenità nella bella e verde Umbria. Dovevo portare a Foligno le copie di non so più quali documenti, per questo pregai la mia segretaria di venire ad aiutarmi, per una mezz’ora, anche quel venerdì mattina. E verso le 8,30 ero già nel mio studio, occupato nella preparazione della partenza. Intorno alle 8,45 la segretaria mi telefonò annunciandomi che avrebbe avuto un quarto d’ora di ritardo. Ne approfittai per chiamare al telefono mio fratello, che non vedevo da diverso tempo. Durante la conversazione, che si svolgeva dall’apparecchio del mio studio personale, udii suonare il citofono. Pensai che fosse la mia segretaria e pregai mio fratello di rimanere in linea mentre andavo nella sala di ingresso ad azionare il pulsante apriporta elettrico. Tornai quindi al telefono, ma dopo pochi secondi squillò il campanello della porta. Sempre pensando che la segretaria avesse dimenticato le chiavi dello studio, di nuovo pregai mio fratello di attendere e, deposto il ricevitore sulla scrivania, andai ad aprire. Appena aperta la porta di dieci centimetri, un giovane di statura molto piccola, infilato il piede nello spiraglio e con una mano protesa verso di me, qualificandosi come ingegnere tal dei tali, spingeva per aprire il battente che io cercavo, invece, di richiudere. Ma dietro a questo piccolo individuo vi erano altre persone, che si buttarono con tutto il loro peso sulla porta per aprirla ed ebbero facilmente partita vinta. Mi trovai di fronte a tre giovani uomini e una ragazza. Gli uomini erano vestiti in maniera normale (notai in seguito che solo i poliziotti si travestono da «terroristi»), con giacca e cravatta. La donna, piccola di statura, era vestita di grigio, con un cappello di maglia sulla testa. Le intenzioni dei quattro erano inequivocabili. Ricordandomi che nella stanza attigua avevo lasciato il ricevitore del telefono sulla scrivania, con mio fratello all’altro capo della linea, cominciai a urlare aiuto con tutto il fiato che avevo in gola. Ognuno del gruppo, nel frattempo, metteva in atto il suo compito specifico: uno richiuse la porta, un altro mi spinse sul divanetto dell’ingresso, mi tolse gli occhiali (sono miope) e, puntandomi una rivoltella calibro 38 sul naso, mi disse: «Sta’ zitto, hai fatto abbastanza casino, se no ti sparo subito». Era il Mutti. Queste convincenti parole mi indussero a tacere e ad osservare ciò che stava succedendo. I quattro si erano divisi ora in due gruppi: uno perlustrava le stanze dello studio e l’altro preparava il materiale per legarmi: stringhe di plastica e cerotti. Tutti erano armati di pistola, ognuno l’aveva estratta da una busta di plastica nera. Uno dei quattro mi ordinò di alzarmi e di avvicinarmi al tavolo che è situato nella sala d’ingresso dove ci trovavamo. E lì cominciarono a legarmi saldamente i polsi dietro la schiena e le caviglie. Poi mi circondarono la testa, alla altezza della bocca e del naso, con un tenacissimo cerotto. Così conciato fui condotto, per ordine del piccolino (Bignami), nel bagno.
A questo punto le prospettive di fronte alle quali mi trovavo erano chiarissime: sarei stato gambizzato o ucciso. La mia unica speranza era mio fratello: speravo che avesse udito le mie urla e chiamato la polizia. Dato il tempo trascorso, questo poteva essere già avvenuto, e forse avrei potuto salvarmi. Non potevo fare altro che perdere tempo, con il massimo di resistenza passiva. Cercai di percorrere i cinque metri che separavano il bagno dal punto in cui stavo il più lentamente possibile, fingendo che camminare legato come un salame mi risultasse più difficile di quanto fosse in realtà. Questo fece spazientire il mio guardiano. Appena fummo nella stanza da bagno, mi ingiunse di sdraiarmi a terra a faccia in giù. Non è facile sdraiarsi a faccia in giù completamente legati. Non ci riuscivo e non volevo riuscirci. Allora fui colpito con un violento pugno nella schiena e caddi in avanti, faccia a terra, con la testa vicino alla tazza del gabinetto. Cadendo battei il naso e la fronte e la contusione riportata, unita al grande cerotto che mi tappava naso e bocca, cominciò a darmi subito problemi per respirare. Nella mia posizione supina aderivo con un orecchio al pavimento, dal quale sentivo riverberati tutti i rumori dei concitati movimenti della banda dei quattro nel mio studio. Si erano accorti del telefono staccato e ne erano impauriti, perciò avevano deciso di accelerare il loro lavoro e concludere l’operazione al più presto. Il loro lavoro consisteva in due funzioni precise: quella di uccidermi e quella di appropriarsi dei progetti del carcere di Spoleto, che io avevo fatto e che era in costruzione a quell’epoca. Con la faccia aderente al vaso di porcellana bianca, con le tumefazioni e le difficoltà nel respirare, con i rumori concitati che udivo, mi sentivo in una brutta condizione. Pensavo alla sorte doppiamente triste che mi era toccata: morire e morire con la testa appoggiata a un cesso. Immaginavo che mi avrebbero ucciso, ma pensavo pure, per farmi forza, che avrebbero potuto soltanto spararmi alle gambe. Ma sarei morto lo stesso dissanguato. E tuttavia contavo ancora sulla possibilità che la polizia, avvertita da mio fratello, arrivasse da un momento all’altro a salvarmi. All’improvviso, senza udire alcun rumore, sentii un colpo violentissimo alla nuca. Immediatamente fui colto da un senso di vertigini gigantesche. Mi sembrava di roteare in uno spazio infinito, senza più peso. Il mio corpo era diventato una massa insensibile con un’unica parte sensibile e terribilmente dolorante: la nuca. Presto il sangue cominciò a sgorgare da fuori e da dentro. La bocca mi si riempì e mi sembrò di soffocare. Un primo segno della fortuna che mi avrebbe assistito, anzi che già mi aveva assistito, fu che il sangue caldo scostò il cerotto della bocca e così la bocca si svuotò e potei riprendere a respirare. Non credo di aver perso mai i sensi.
Ho il vivo ricordo ancora oggi di ogni secondo di quella vicenda. Il rumore dei passi non cessò mai. Da rumore dei passi dei terroristi diventò quello dei passi della polizia, con un intervallo che direi una sovrapposizione. I terroristi percorrevano una strada diversa da quella della polizia. La polizia arrivò e trovò il portone chiuso. Suonò tutti i campanelli, ma nessuno era in casa in quel giorno e a quell’ora o aprì. Avevano già deciso di andarsene, quando sopraggiunse la mia segretaria, Marinella Baliva, che aprì il portone. La polizia entrò e si diresse ai piani alti (il mio studio è al primo piano). La segretaria entrò nello studio. Subito notò sulla parete d’ingresso la grande scritta fatta con lo spray dai giovani assassini: «Annientare i tecnici della controguerriglia». Chiamò i poliziotti che erano su per le scale. Gli agenti entrarono con circospezione nell’appartamento e lo visitarono tutto: notarono la scritta, il disordine lasciato dopo la ricerca dei progetti, ma non videro altro. Per fortuna Marinella ebbe l’idea di guardare nel bagno, e lì mi trovarono in una pozza di sangue. Fui trasportato nella biblioteca dello studio, prima, poi all’ospedale di S. Spirito. All’inizio, credevo di essere stato colpito con il calcio della pistola e pensavo a una frattura del cranio. Avevo perso la voce e la vista ed ero tutto dolorante e pieno di sensazioni indescrivibili. All’ospedale S. Spirito mi fecero una radiografia: udii un medico dire all’altro: «Gli hanno sparato un colpo di pistola nel cranio. Il colpo è ancora dentro». Allora capii tutto ciò che era successo e anche il pericolo che correvo di morire per cause indotte da questo colpo di pistola, rimasto nella testa (dove, poi, resterà per sempre per consiglio di tutti i medici che mi hanno visitato e curato). Dal Santo Spirito fui trasportato al reparto craniolesi dell’ospedale San Giovanni e lì ricoverato. Le mie condizioni fisiche nei mesi successivi peggiorarono, anche se i medici mi dichiararono fuori pericolo dopo tre giorni. Le lesioni ai nervi, prodotte dall’ingresso della pallottola e dallo stiramento che la violenza del colpo aveva provocato al collo, iniziarono a mostrare i loro effetti: perdita di alcuni muscoli della spalla e del braccio destro, paralisi delle corde vocali e perdita della voce, perdita delle possibilità di focalizzare il quadro visivo, restrizione del campo visivo e, poi, tosse continua, difficoltà di inghiottire e mangiare, forte mal di testa, insonnia e tutto quel che segue. Molte persone mi vennero a visitare in ospedale, dove ero piantonato da una guardia armata della polizia, giorno e notte. Leonardo Benevolo e Bruno Zevi scrissero due articoli molto belli, e lusinghieri per me, sull’episodio occorsomi, rispettivamente sul «Corriere della sera» e sull’«Espresso». Ricevetti lettere e telegrammi; alcuni esimii: il segretario generale del presidente della repubblica in nome del presidente, membri del governo, alcuni parlamentari, colleghi di università, amici. Poi fui completamente dimenticato e piombai in un silenzio e in un isolamento totale.