Autore
Mihaela SumanAnno
2022 -2022Luogo
CroaziaTempo di lettura
7 minutiIl suono della nostalgia
Una volta in Italia, oltre a dover scegliere tra la cittadinanza croata o bosniaca, scomparsa quella jugoslava, mi trovai in difficoltà nel dover indicare la mia lingua madre perché la lingua che ho sempre parlato e detto di parlare, il serbo-croato, ufficialmente non esisteva più. In realtà, ancora oggi non so come si parla “esattamente” in Serbia, in Bosnia e in Croazia: uso in modo indifferenziato le parole così come le ho imparate a seconda delle regioni in cui vivevo, kruh, “pane” in croato, voz, “treno” in bosniaco e in serbo. Però non mi verrebbe mai da dire pasulj per “fagiolo”, così chiamato in Serbia, anche se so cosa significhi, perché non ho mai vissuto in Serbia. Ci capiamo tutti quanti, Macedonia e Slovenia a parte, che hanno lingue a sé stanti, tanto che da anni esiste la “Dichiarazione della lingua comune”, in cui si promuove l’uso della lingua che abbiamo parlato per secoli e ufficialmente per quarantotto anni nel nome dell’unità e della fratellanza. In Italia arrivai a tredici anni, alla seconda metà della seconda media. Fui fortunata con gli insegnanti che non mi fecero perdere l’anno. Studiavo tutto a memoria capendo poco o niente e finii le medie col distinto, credo per l’impegno messo. All’esame finale mi mancò la voce per il terrore, quando dovetti parlare. Mi lasciarono prendere tempo e quando aprii di nuovo la bocca, di nuovo non uscì alcun suono. Boccheggiavo come un pesce. Mi diedero una mentina e dopo un po’, finalmente e vergognandomi da morire, ripresi il controllo delle mie corde vocali. Alle superiori il vulcano-bubbone era scoppiato per la prima volta. Ero conscia dell’odio che mi portavo dentro e lo mostravo con ostinazione, come una forma di resistenza o come l’unica possibilità di vivere; passiva e ferita, che però vuole che il mondo sappia. Tutto il mio essere gridava: guardate il mio dolore!
Jeans e l’azzurra maglia del pigiama da ospedale, occhi truccati pesantemente di nero o di rosso, ascoltavo i Nirvana e i Metallica e la sera di nascosto bevevo dalle varie bottiglie della dispensa dei miei. A volte prendevo a caso una medicina dal cassetto di mia madre senza leggerne il bugiardino e la buttavo giù con quell’improbabile mix alcolico. Al collo portavo una grossa croce, simbolo del peso e che non c’entrava niente con la fede. Non ero credente e nemmeno battezzata e l’unico periodo vagamente religioso nella mia vita era stato intorno ai dodici anni, quando, su influenza delle amiche, il recitare Padre Nostro prima di andare a dormire mi sembrava un atto di ribellione verso la famiglia. Lo recitavo in ginocchio e se capitava che qualcuno entrasse in camera, mi buttavo a peso nel letto facendo finta di dormire. Una volta mia nonna mi sgamò e andò a lamentarsi con mia madre “che pregavo dio”. Portai la croce al collo per anni, finché un giorno mi si ruppe mentre la usavo come apribottiglie stappando delle birre. Mi sentii come se mi si fosse bucato il salvagente in mare aperto. Avevo bisogno che la mia interiorità avesse un simbolo. Prima di quella collana avevo avuto una maglietta su cui con un pennarello nero avevo disegnato una croce. Anche Kurt Cobain se ne era fatta una così. A quindici anni avevo avuto i miei primi due ragazzi, ma poi chiusi quella porta fino ai diciannove. Il genere maschile mi faceva schifo, schifo le donne che si adattavano al tradizionale ruolo di donna, e a casa mi rifiutavo di lavare i piatti se era presente mio padre. La sentivo come un’umiliazione. Le mie giornate a scuola le sentivo come perse, non capivo le lezioni, credevo per la scarsa conoscenza dell’italiano, e scarabocchiavo frasi autolesionistiche sul mio diario. Vivevo in un paesino morto e pieno di vecchi; senza stimoli, due, tre bar nel centro del paese, e poi il nulla. Per uscire serviva la macchina, ma io non avevo amici. Non c’era vita, là fuori, per me. Non volevo vivere. Avevo paura di uscire di casa e non lo facevo se non ero costretta; mi sentivo come se qualcuno mi osservasse in continuazione, anormale, mostruosa, repellente. Vent’anni dopo, il lockdown per il coronavirus mi avrebbe fisicamente ricordato quel periodo di coercizione e confino in casa. A un certo punto, verso i sedici, diciassette anni, cominciai a vomitare dopo mangiato. Avevo la pancia sempre gonfia e nulla da fare, così mangiavo e mangiavo, con gran sollievo di mia madre, sempre preoccupata della mia magrezza. La bulimia mi accompagnò per più di dieci anni della mia vita, smisi verso i trenta, quando per la prima volta nella vita da adulta cominciai ad avere un nesso positivo con la vita esterna: le serali di liceo artistico a Firenze. Un professore in particolare mi salvò. Notò il mio vivido interesse per la storia dell’arte, materia che insegnava, e tutto ciò che vi era annesso: letteratura, psicologia, scienze umanistiche in generale. E cominciò a prestarmi libri, invitarmi a casa sua, mi rincorse in giro per la scuola con La prospettiva rovesciata di Pavel Florenskij, “perché io, quel libro, lo dovevo assolutamente leggere”. Aveva la fisionomia di mio nonno e gli occhi azzurri di mia nonna. All’epoca lavoravo otto ore al giorno per i primi due anni, facendomele poi ridurre a sei e frequentando le lezioni in orario serale. Spesso cenavo con un pacchetto di crackers in bicicletta mentre dal lavoro pedalavo fino alla scuola per sette chilometri. Le persone della classe erano tutte strane come me, ma ciascuno a modo suo, e per la prima volta mi sentii accettata, nonostante la mia “durezza d’orecchi”. Copiavamo i busti in gesso, dipingevamo con gli acrilici e disegnavamo i modelli dal vivo, sbirciando e ammirando i lavori dei compagni. In piedi davanti al cavalletto, il nostro carattere si rivelava nei tratti e nelle forme che lasciavamo sul foglio, più o meno marcato, più o meno sicuro, dritto o tremolante, pasticciato o preciso. Mi diplomai dopo cinque anni con cento e lode, con una tesina su Pavel Florenskij e la prospettiva rovesciata, che regalai al professore di storia dell’arte. Io, come individuo, non ero più il centro del mondo, non dovevo più rendere conto di niente, ero un puntino dell’orizzonte compreso nel mondo. Che sollievo, potevo vivere anche così com’ero, strana, distorta, dislocata e persa. Mi sentii accolta nel mondo, legalizzata molto prima di prendere la cittadinanza italiana.