Autore
Mihaela SumanAnno
2022 -2022Luogo
CroaziaTempo di lettura
8 minutiIl suono della nostalgia
Ho una vera repulsione per tutta una parte della mia vita che percepisco come una serranda chiusa sulla vita stessa. Il periodo in Italia, soprattutto dall’adolescenza e fino a quasi trent’anni, è un periodo che non amo ricordare, che identifico con la malattia e con un mal di vivere così profondo che tutt’oggi è la cosa più lontana dalla natura che io conosca. Giorni, mesi, anni in cui mi alzavo la mattina e non ne avevo nessuna voglia, in cui nessun pensiero della giornata che mi si affacciava davanti aveva attrattiva per me. Solo angoscia. Non parlo volentieri di quel periodo e se ne parlo lo faccio sbrigativamente. Mi verrebbe da dire che era un periodo morto, in cui non succedeva niente, ma sarebbe sbagliato. Le cose succedevano, ma circolarmente e in termini di eternità: una discesa negli inferi della psiche e un eterno girare nello stesso girone. Se ne devo parlare da un punto di vista emotivo, utilizzo solo termini assoluti o non ne uso affatto. Erano anni terribili, in cui io stavo come un corpo morto e in me lottavano potentissime forze oscure e totalizzanti. Le uniche cose verso cui queste forze erano impotenti erano la mia infanzia e le persone dell’infanzia che avevo amato. Tutti gli altri, erano loro. Come se in me vivesse un Minotauro femmina rinchiuso negli abissi di una latente coscienza, e che divorava tutto tranne il tesoro di quella bambina che era stata. Davanti a lei, la bestia si inginocchiava, piangeva persino. Non con la voce delle bestie, ma con la voce dei bambini. Può sembrare strano che non volesse divorare anche la bambina, come narra il mito, ma ora so che questo non succedeva perché l’altra faccia del Minotauro era la bambina stessa. La bimba non cresciuta, che non poteva crescere lì dove l’avevano ripiantata, stava diventando una pianta anomala, infestante e infestata, l’unico modo per poter sopravvivere in quella terra e a quelle condizioni. Ho conosciuto il ribrezzo per la sofferenza, l’essere evitati. Oggi la riconosco nella luce spenta degli occhi dei barboni, dei migranti che con insistenza ti chiedono uno spicciolo mentre sei davanti alla bancarella del contadino al mercato. A volte mi sembra di vederla nei visi di alcune persone che conosco, a tratti, quando dimenticano lo sguardo per terra in un punto impreciso, quando non sanno di essere osservati, ma sono attimi brevi. La sofferenza è la più brava a mascherarsi. Non si parla della vera sofferenza, quella che divora dall’interno come una metastasi, se ne prova vergogna. A volte è difficile aiutare, spesso impossibile; e quel dolore è muto e le persone di fronte a esso sorde. Oggi amo parlare dei problemi, miei o degli altri, perché so che se una sofferenza ha voce, non è mai quella sofferenza, e questo mi dà sollievo. La sofferenza di cui si parla agli altri è vita e la sua voce proviene da questo mondo. Muta, è solo la morte.
Il mio Grande esilio iniziò ufficialmente il 29 novembre 1993, il giorno in cui, dopo trentasei ore di viaggio, arrivammo in Trentino. Mi segnai bene la data e per anni quello fu il mio giorno di lutto. Perciò fu grande la sorpresa e lo straniamento quando seppi che quella data di soli quarantotto anni prima è la data della fondazione della Jugoslavia, la cui disgregazione ha dato inizio al mio Grande esilio. Nemmeno mezzo secolo erano durate l’unità e la fratellanza, il motto che si poteva trovare nei nomi di numerosissime vie e piazze nel mio fu Paese. Bratstvo i jedinstvo, “unità e fratellanza”, era anche il nome della tratta ferroviaria Konjic-Jablanica, a cui il mio Deda dette attivamente il proprio contributo in due momenti, nel ’48 come operaio e nel ’52, quando per quattro mesi vi lavorò come segretario. Mio padre era già arrivato in Italia qualche mese prima dopo varie peripezie e giri larghi passando dalla Bosnia, in Serbia e in Ungheria, poi in Slovenia, dove un amico lo nascose per qualche settimana, a proprio rischio, e infine in Italia. Dalla Serbia, dove viveva la sorella di mia madre con il marito di origini ucraine, doveva prendere un aereo per l’Italia, ma il tizio che aveva organizzato la cosa non si fece vedere. Era il fratello del proprietario della birreria in un paesino del Trentino in cui anni dopo saremmo andate io e mia sorella da adolescenti a sbronzarci. Del viaggio che diede inizio al Grande esilio ricordo che mia sorella, che all’epoca aveva cinque anni, aveva la febbre altissima e perciò era un peso morto abbandonato su mia madre. Al confine con la Slovenia la polizia di confine ci fece scendere malamente dall’autobus in mezzo alle proteste dei passeggeri. A quanto pare non avevamo i documenti in regola, cambiavano in continuazione quelli richiesti. Ci venne a prendere la zia in macchina con altri due italiani e riuscimmo a entrare da un altro varco.
La coppia di italiani, L. e R., per un po’ avrebbe avuto un peso non lieve nelle nostre vite, e qui mi viene in mente Luca Rastello quando racconta delle dinamiche spesso difficili che si instaurano tra i profughi e chi li accoglie. Per fortuna mio zio trovò quasi subito lavoro a mio padre, in una fabbrica, ma la mamma non lavorava ancora. Perciò L. diceva alla zia, che regolarmente andava a stirare da lei e farle le pulizie di casa, di portare con sé mia madre. La mamma ci andò all’inizio, ma poi cominciò a rifiutarsi: si sentiva una schiava. Il lavoro svolto non era pagato, ma era considerato come dovuto per il favore che le avevano fatto ad aiutarla a venire in Italia. L. le passava anche dei vestiti, come faceva con la zia. Erano “gonne lunghe, zingaresche, maglie da nonna, di un taglio e gusto retrogrado”, a detta di mia madre, che per tutta la vita ha indossato minigonne. Si sentiva umiliata più per i vestiti che altri sceglievano per lei che per il lavoro non retribuito. Ma questo io non lo sapevo, così come lei non sapeva come mi stavo vivendo io la permanenza nella casa di L. e R. Vivevamo chiusi come dei ricci in noi stessi, traumatizzati e incapaci di prestare attenzione l’uno all’altro, lo capimmo col senno di poi. Da L. e R. sono stata per un mese, forse due, su idea della coppia e della zia, “per integrarmi”. Tornavo da scuola, poi mangiavamo pasta al tonno o al sugo, pizza o minestra, cibi strani e inusuali per me, tranne ovviamente la minestra, ma buonissimi. A tavola, non capivo niente di quello che si diceva, l’italiano era una lingua piena di “gi” e “ci”, e dove tutte le parole finivano con lao. Una lingua stupida, che non aveva niente di dignitoso e in cui nulla sembrava grave o serio. Anche se venivo incoraggiata a conversare, non facevo mai domande, a ogni pasto cercavo di mimetizzarmi con la sedia. “Ancora?” fu una delle prime parole che imparai, “No, grazie”, me ne scappavo in camera. E ci restavo tutto il giorno. L. e R. avevano due figli e una figlia, tutti e tre con la stessa faccia, brutta e non intelligente, nonostante loro due fossero veramente belli. Nessuno di loro aveva cercato di avvicinarmi o fare amicizia con me, ma nemmeno io con loro. Non capivo cosa si aspettassero da me, non capivo quella lingua, non capivo perché fossi lì in quella casa, perché fossi in Italia, perché le cose stessero andando in quel modo che non mi piaceva. Sapevo solo che mi mancavano i nonni e le mie amiche.