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Autore

Mihaela Suman

Anno

2022 -2022

Luogo

Croazia

Tempo di lettura

6 minuti

Il suono della nostalgia

Il demonietto sulla spalla che ripete: “Tu non puoi avere quello che desideri, tu non sei come gli altri, tu non-sei”.

Il Piccolo esilio è la mia psiche scissa e travagliata dalla paura dell’abbandono e a sette anni già malata di nostalgia, il Grande esilio è la ripetizione e l’amplificazione del dolore del Piccolo e il suo irradiarsi nel mondo. L’Altro esilio è invisibile e afono, quello che mi ha impedito di guarire dagli altri due, il loro rinascere ciclicamente come la parte amputata di un organismo che ricresce sempre. Inscenando sempre la stessa antica tragedia per vedere sempre di nuovo lo stesso sangue scorrere e cercare nel veleno la medicina. Il demonietto sulla spalla che ripete: “Tu non puoi avere quello che desideri, tu non sei come gli altri, tu non-sei”. Il piccolo padre del grande impostore interiore che ti dice sempre che non meriti niente, né di sperare né di sognare, non di studiare, non di comprarti i colori e l’argilla, non di viaggiare. Per fortuna la vita mi ha fatto incrociare persone che mi hanno comprato i colori e l’argilla, dato dritte sulla grammatica e incoraggiato a scrivere. E poi è arrivata l’area Schengen.

Dovetti lasciare il mio amato paesino e per lunghi anni l’unico luogo possibile in cui c’era l’unica possibile casa e gli unici genitori possibili, i miei nonni.

Il Piccolo esilio

Mi hanno detto che urlavo e piangevo inconsolabilmente ogni volta che mamma e papà andavano via, ma io non ne serbo il ricordo. Rammento solo le passeggiate con il nonno Dejan, il mio caro Deda, stella ferma nel buio per tutta una vita. Mi prendeva per la piccola mano e portava con sé in giro per il paesino che tanto ho amato, Hrvac´ani, in provincia di Banja Luka, nella mia Bosnia. Mi raccontava le fiabe, mi comprava Topolino, è con lui che ho imparato a leggere a quattro anni. E quella frase, panta rei, che ripetevo a pappagallo senza capire cosa significasse. Ora l’ho tatuato sul braccio, ma lui non ha fatto in tempo a vederlo e probabilmente non sarebbe stato in grado di apprezzarlo, erano altri tempi. D’altronde me lo sono fatto tardi, quando ero certa che non avrebbe minato la mia precaria condizione sociale di immigrata. A trentatré anni, dopo un incidente in cui ho rischiato la vita, e che poi mi ha permesso di cambiare vita. In ogni caso, il mio Piccolo esilio inizia con la prima elementare, quando i genitori decisero di prendermi con sé a Zagabria. Dovetti lasciare il mio amato paesino e per lunghi anni l’unico luogo possibile in cui c’era l’unica possibile casa e gli unici genitori possibili, i miei nonni. Ho sofferto tantissimo questo distacco e fu in quei quattro anni a Zagabria che il mio cuore si divise dal corpo e non fui mai più pienamente presente alla realtà. Tornavamo per ogni vacanza, è vero, ma sapevo che saremmo sempre andati via e ogni volta il dolore era forse persino più grande. Ricordo ancora l’euforia all’arrivo e la cupa disperazione alla partenza, l’odio per i miei genitori, coloro che mi portavano via. Chissà, forse col tempo mi sarebbe passata, mi sarei integrata in quella città grande, ma la legge dell’eterno ritorno aveva preso gusto con me. Hrvac´ani, che nel nome porta la parola “croato”, era abitato da serbi, ucraini e karavlasi, i rom di Bosnia, dalle case più ricche e più belle.

Fluttuavo sulle nuvole verso la scuola, portata dalle ali gigantesche della libertà in quella indimenticabile giornata di sole.

Ma tutti questi marchi a caldo: croato, serbo, musulmano, li avrei conosciuti tre, quattro anni dopo. Nel 1991, a causa delle tensioni in Croazia, i miei genitori decisero di tornare in Bosnia e lasciarci alle spalle l’odiata Zagabria dove mi sentivo discriminata, diversa, lontana dalla vita. Ho ancora un ricordo nitido della giornata estiva a Hrvac´ani quando, dovendo accompagnare un’amica a scuola perché si comprasse i libri per l’inizio dell’anno nuovo, mio padre mi cacciò i soldi in mano e disse: “Tieni, compra i libri anche per te, non torniamo a Zagabria. Andrai a scuola qua”. Ricordo che ritirai timidamente la mano, pensando la cosa come impossibile e, nello stesso tempo, mio padre incapace di una presa in giro così crudele, sapendo del mio attaccamento per quei luoghi e per i suoi genitori. Invece era vero! Fluttuavo sulle nuvole verso la scuola, portata dalle ali gigantesche della libertà in quella indimenticabile giornata di sole. Sarei andata nella scuola dove mio nonno ha insegnato e dove mi portava nel suo ufficio da direttore e mi metteva a sedere sulla scrivania all’ingresso dove battevo a macchina e mi dava i gessi colorati ed entravano maestre carezzandomi i capelli e stampando baci rossi sulle guance e ah, una volta il sordo bidello Simo mi ha permesso di suonare io il grosso campanello per annunciare la ricreazione. Ma quanto era pesante quel campanello! Comprai dei libri usati, in caratteri latini e cirillici, scarabocchiati ovunque e con in copertina nomi di ragazzi e la classe, i precedenti proprietari. Così il periodo dell’inizio della guerra in Croazia e poi in Bosnia per me coincise con il sogno che si realizzava, il ritorno. Avevo dieci anni e certo vedevo i cambiamenti che avvenivano nel Paese, gli uomini che ora giravano armati, la mamma sempre in ansia, il papà taciturno e armato anche lui, le caramelle e dolciumi che mancavano dagli scaffali dei negozi ora semivuoti. Ma mi divertivo a collezionare i bossoli e a scambiarli con altri amici, per un po’ ho avuto pure un fidanzatino più piccolo di me e arrivato con le truppe di soldati stanziati nell’appartamento sotto il nostro, da Ljalja. Poi se ne andarono, finalmente, e con loro il mio fidanzato orfano, che in realtà non mi piaceva, ma Ljalja aveva una vera predisposizione nel trovarmi dei fidanzati.