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Autore

Severina Rossi

Anno

1988 -1989

Luogo

Cremona/provincia

Tempo di lettura

8 minuti

Io cantastorie: libertà vo' cercando

Non ho pretese letterarie. Dedico questi frammenti di vita incisi nel mio cuore, alla piccola Alice che ha sostituito i racconti delle fate con storie vere, chiedendo come vivevano i nonni da giovani. La mia testimonianza, racconta come maturò la trasgressione di un popolo frustrato, dal desiderio a lungo sognato di una giustizia vera. Quando Alice sarà cresciuta, potrà capire comi si può sfidare la morte amando la vita.

Severina

[...]

Io sono nata nel 1920 da madre ex filatrice e da padre cantoniere comunale.  Sono la quinta di cinque sorelle e un fratello. Mi chiamarono Severina. Abitavo con la mia famiglia in via Dante, già via Piacenza.

Ai miei tempi, al mercato, non sempre si andava per comprare, si andava soprattutto per vedere. La gente veniva da tutto il circondario e le ragazze contrattavano qualche stoffa a fiori o le stoviglie che, anche se non proprio belle, avevano il pregio di costar poco. In quel periodo i mendicanti erano molti, perché i vecchi non avevano la pensione e anche se all’entrata del paese, un cartello diceva che era proibita la questua, bussavano a tutte le porta, tanto, loro, non sapevano leggere. C’era pure un cantastorie che narrava di fatti delittuosi o di innamorati sfortunati, riscuotendo ammirazione e simpatie specialmente dei ragazzi. Non mancava il mendicante con la gabbietta e il pappagallo che, con il becco, prendeva il biglietto dell’oroscopo che veniva dato in cambio di una piccola offerta.
Le strade del paese erano tutte una buca, malandate e dimenticate da tutti i podestà che si susseguirono. Quando pioveva era una pozzanghera unica e si udiva il rumore delle pale di legno che ricacciavano l’acqua dagli usci delle case. La via Pozzo Farinello era attraversata per tutta la lunghezza da uno scolo a cielo aperto, proveniente da tutti i pozzi neri che non tenevano più e tutt’intorno regnava una puzza fastidiosa. Pure i topi facevano la loro presenza furtiva. In compenso, però, c’era una pompa dell’acqua “così fresca e così buona” alla quale accedevano tutte le case dei dintorni. Spesso, un nonnulla, diventava motivo di litigio. Passando, dalle finestre si udivano le bizze dei bambini e le discussioni degli adulti.
Le donne del paese erano quasi sempre vestite di scuro. L’abito bello, quello della festa, era di stoffa pesante con le maniche di seta, perché doveva servire sia d’estate che d’inverno. Se un vicino di casa riusciva a comprarsi un abito nuovo, costituiva la notizia di tutta la contrada.
Tutto fra la povera gente avveniva allo scoperto, si faceva presto a indovinare come uno viveva. Come in tutti i paesi dove regnava la miseria più nera, c’era qualche prostituta per pochi soldi, che proprio dagli uomini che la circuivano e la pagavano veniva paradossalmente chiamata con soprannomi infausti. Una suonava così: “Vacon”.
Io sono nata nel 1920 da madre ex filatrice e da padre cantoniere comunale.  Sono la quinta di cinque sorelle e un fratello. Mi chiamarono Severina. Abitavo con la mia famiglia in via Dante, già via Piacenza. Il mio rione, S.Rocco, era soprannominato “Capuccini”, per via di un antico convento che il tempo aveva spazzato via senza lasciarne traccia alcuna. Gli abitanti avevano un altro soprannome: “Fidelen”, che in gergo soresinese significava pastina sottile, segno di debolezza, soprannome dato con spirito campanilistico dai giovani di altri rioni che si contendevano le ragazze in età da marito.
Mio padre, tornato dalla grande guerra, tenendomi sulle ginocchia, mi racconta episodi da lui vissuti, compresa la ritirata di Caporetto e il viaggio in Cina e in Libia per servizio militare.
Mia madre mi raccontava di non essere mai stata a scuola, a fatica sapeva fare la sua firma e leggeva a stento qualche parola imparata dai suoi figli in età scolare, perché lei a sei anni, faceva la forestiera. Si recava in filanda a lavorare e, siccome non arrivava alla bacinella dell’acqua bollente, stava in piedi su uno sgabello. Dal paese di S.Bassano dov’era nata, si recava a piedi a Soresina tutti i giorni feriali, trotterellando sempre dietro le più grandicelle che avevano il passo lungo, Partiva da casa col buio e tornava che era un’altra volta buio e, spesso, piangeva di paura. Si portava dietro polenta e fichi secchi, un panino fatti in casa il giovedì.

Io e mio padre ci recammo sul posto a fare da guardia.  A un tratto, facendomi segno di tacere, mi prese per mano e, quatti quatti, ci nascondemmo tra le zolle fitte dei fusti.

Con un’età diversa, a undici anni, la filanda toccò alle mie prima due sorella, che tornavano a casa con le dita piagate e le mani sembravano cotte nell’acqua, ma fortunate loro, nonostante il grande vapore emanato da tutte le bacinelle in ebollizione, non avevano contratto la tubercolosi come altre e avevano un posto “quasi sicuro”.
La sera, d’inverno, le amiche e vicine si radunavano a casa mia, attorno al focolare e raccontavano la loro dura giornata sferruzzando calze a maglia o rattoppando indumenti, oppure sacchi di juta per i commercianti di grano, per guadagnare qualche soldo in più.
D’estate, buona parte delle famiglie, allevavano bachi da seta. Così la mia famiglia, che aveva la fortuna di un pezzo di terra, vedeva le mie sorelle recarsi nei campi al primo sole, per sfrondare i rami dei gelsi o per zappare il grano. Spesso avveniva di alzarsi alle tre, quando pure l’usignolo dormiva e nonnaveva ancor cantato e, piene di sonno e nel buio notturno, trainavano un carro a mano, con mia madre e le stelle per compagne. Mia sorella Francesca ricorda: “poi alle sette di mattina, una lavata ai piedi, una fetta di polenta o un pezzo di pane e via di corsa in filanda, con la paura di far tardi”.
Le altre ragazze che non avevano la fortuna di poter fare la filatrice, si facevano in quattro per accaparrarsi un posto da mondariso in paese forestiero. Ricordo un triste episodio. Un mattino presto, dovendo partire il camion con il numero sufficiente di mondine, una donna piangendo implorava che la assumessero, non voleva restare a terra, spingeva per salire con le altre, finché una di loro, temendo di essere sostituita, provocò un alterco che finì a zoccolate sulle ossa. La mondina mancata dovette rassegnarsi e il camion partì sotto lo sguardo dei bambini che salutavano le loro mamme allungando le manine, piangendo e invocandolo finché scomparvero lontano.
Gli uomini del paese non erano più fortunati delle donne. D’estate invadevano i campi a spigolare o a rubare qualche sacco di grano, tallonati dai proprietari e dalle guardie campestri. Fu così che mia madre, con tutti quei figli da sfamare, disse a mio padre: “Vai a dare un’occhiata al granoturno che è quasi maturo e non voglio cambi padrone”. Io e mio padre ci recammo sul posto a fare da guardia.  A un tratto, facendomi segno di tacere, mi prese per mano e, quatti quatti, ci nascondemmo tra le zolle fitte dei fusti. Sentivo il fruscio delle foglie e lo strappo netto delle pannocchie che testimoniavano la presenza di qualcuno che raccoglieva e insaccava il grano. Lo sfortunato uomo venne proprio a nascondere il sacco dove noi eravamo nascosti. Ci fu un attimo di imbarazzo, poi mio padre disse: “Vai pure, hai figli anche tu, portatelo via, e rivolto a me: “Non lo dire a nessuno”.
L’uomo se ne andò col suo sacco, ma prima disse che non sarebbe più venuto nei nostri raccolti perché sapeva che eravamo poveri come lui.
Se l’estate era dura, l’inverno non era migliore. La gente malnutrita e malvestita soffriva molto il freddo e, per risparmiare la legna e stare al caldo, usava costruire in casa una sorta di tramezza fatta di cartoni, dividendo il locale e riducendolo a pochi metri di spazio, affinché il calore non andasse disperso. Era un divisorio da togliere con l’arrivo della primavera. Nulla doveva andare sprecato, fino al paradosso. Una volta vidi mia zia Paolina a piedi nudi correre sulla neve, con gli zoccoli nuovi sotto le ascelle, perché guadagnati a fatica dovevano durare a lungo, non voleva sciuparli.
Io ero piccola ma non abbastanza per non assaporare questi elementi, che come linfa vitale diverranno preponderanti nelle mie scelte di vita.