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Autore

Severina Rossi

Anno

1988 -1989

Luogo

Cremona/provincia

Tempo di lettura

7 minuti

Io cantastorie: libertà vo' cercando

Il mio nome era scritto ovunque e io mi vergognavo per timidezza. Ci fermammo in piazza Garibaldi e poi a S. Siro, ove persi di vista tutti miei compagni di sventura senza poterli salutare perché tolta di peso, trascinata e portata in spalla, contesa da tutti, da gente che conoscevo e da gente che non conoscevo, gente che mi baciava, gente che mi chiedeva, gente che mi ringraziava.

Ci rimettemmo in viaggio. L’alba era ancora lontana. Entrammo nel cuore di Crema, ci fermammo in piazza vicino al municipio, alla sede del C.L.N. I responsabili si misero in contatto e appresero che Crema stava vivendo l’emergenza con scarsi mezzi di armi e di uomini, inoltre era in arrivo una colonna di tedeschi proveniente da Spino D’Adda: Avanzava fuori città annunciandosi con cannonate che misero a dura prova noi tutti, stressati com’eravamo dagli avvenimenti. Si udiva l’incessante rumore ferroso e pesante dei mezzi corazzati in transito, qualcuno piangeva.
Alcuni anziani avevano la febbre per la stanchezza.
Per cautela, riparammo parte delle persone negli interni degli abitati vicini, e io, ebbi un battibecco con un tale che non voleva intrusioni nel suo cortile, tantomeno sulle scale. Dovetti parlare di denuncia al C.L.N., perché la parola umanesimo non era sentita.
Tornata sotto il municipio di corsa, feci appena in tempo a riparare dietro il grosso colonnato con gli altri, quando arrivò una macchina di piccola cilindrata dalla quale scesero alcuni ufficiali tedeschi.
Si guardarono in giro, parlarono tra loro ignari della nostra presenza lì a due passi, con le armi puntate. Il cuore batteva all’impazzata. Ci vollero i nervi ben saldi per resistere. Con una colonna in transito, non si poteva sbagliare. Poteva essere uno sterminio. Dopo qualche minuto che sembrò un eternità, se ne andarono con nostro grande sollievo.
Ecco che arriva un’ombra fugace, incerta, arditamente bloccata per i chiarimenti necessari. Era un componente del C.L.N. che a quell’ora faceva i suoi controlli.
E anche questa passò. La radio annunciò che dalle carceri di Bergamo stavano tornando i detenuti politici cremonesi e fece il mio nome. Arrivati a Soresina imboccammo via Dante e all’angolo, all’entrata dell’asilo infantile, notai un movimento insolito. Mi spiegheranno più tardi, che qualche giorno prima del nostro arrivo, alcuni coraggiosi del rione, tra i quali mio cognato, erano entrati nell’asilo che da mesi era occuopato da squadre di fascisti, pronti a far guerra, armati fino ai denti, insospettiti e norvosi, presi dal panico per il susseguirsi degli avvenimenti.
Li indussero a cessare le ostilità. Ormai avevano perso la partita. Poi arrivarono altri soresinesi per la resa delle armi e fecero alcuni prigionieri. Questo cambio della guardia animava il piazzale con un brulicare di gente del popolo in fermento.
Poi il camion degli ex carcerati passò, a fatica senza fermarsi, davanti a casa mia, dove sostava da ore una gran folla. Intravidi appena i miei genitori. Sul cancello del cortile, gli amici del rione Cappuccini, avevano issato rudimentali bandiere di carta rosse, su lunghi bastoni, che sventolavano un po’ goffe ma significative, tra scritte di benvenuto e di evviva. Il mio nome era scritto ovunque e io mi vergognavo per timidezza. Ci fermammo in piazza Garibaldi e poi a S. Siro, ove persi di vista tutti miei compagni di sventura senza poterli salutare perché tolta di peso, trascinata e portata in spalla, contesa da tutti, da gente che conoscevo e da gente che non conoscevo, gente che mi baciava, gente che mi chiedeva, gente che mi ringraziava. C’era pure qualche ricco che aveva sempre ignorato i poveri. Era il 28 o 29/4? Mi sentivo stanca. Quando finalmente arrivai a casa mia, dovetti faticare per entrare, la gente aveva invaso il cortile e tutte le stanze, comprese le camere da letto. C’era pure il parroco del paese.

Io contenevo le lacrime a stento con la testa china senza alzare gli occhi, non so se per l’emozione o se per quel riso che non finiva mai. Mi scoppiava il cuore.

L’impatto con i miei non fu facile. Ero stata educata a dare del voi a padre e madre. Non certo per ubbidire a Mussolini, ma per tradizione. Avrei voluto abbracciarli in una stretta liberatoria, ma il pudore di entrambi le parti ce lo impedì. Dovetti soffocare i sentimenti a beneficio degli usi e costumi della mia famiglia, quei costumi di sottomissione che avevo calpestato, che avevo infranto con l’irruenza dei miei anni.
Avevo saputo che mio padre, quell’uomo mite dal cuore onesto, nel lontano giorno del mio arresto, era caduto a terra colpito da un collasso. Mia madre aveva sofferto moltissimo e mi disapprovava: “Non sono cose da donna”.
Sentivo che la sua sofferenza era ancora viva, ma sentivo anche dai suoi atteggiamenti, un continuo rimprovero. Inoltre, era sbalordita dagli eventi e non credeva ancora nella libertà, aveva ancora paura dei fascisti e mi era ostile nell’intento di proteggermi: “Il mostro tenterà di risorgere, cambierà vestito, il mostro, el cagnüs” (cane rabbioso).
Mio padre sembrava un bambino e traspariva felicità in ogni sua parola. Mi disse che la rondine non era ancora tornata al nido sotto al portico. Forse era in ritardo per la guerra. L’aspettava. Mi portò a vedere la coniglia con tutti i piccoli nati che s’aggrappavano a succhiare il latte e alla nostra presenza tremavano impauriti. Mi mostrò i pulcini di pochi giorni che pigolavano senza sosta e facevano tenerezza per la loro fragilità. Pure i piccioni erano nati, tutti’intorno gli orti si vestivano di verse, i tralci delle viti erano già legati. Non sapeva più cosa farmi vedere per mostrarmi la sua gioia e io capito che la vita avrebbe ripreso. Era pure primavera.
Padre e madre di consigliarono a vicenda per festeggiare il mio ritorno, guardando nel portafoglio, contarono i soldi, comprarono un bottiglione di vino e pranzammo con un piatto di minestra di riso. Io contenevo le lacrime a stento con la testa china senza alzare gli occhi, non so se per l’emozione o se per quel riso che non finiva mai. Mi scoppiava il cuore. Aveva ragione mia madre di avere ancora paura del mostro. All’angolo di via Pozzo Frinello, un fascista in borghese, sbucato chissà dove, si mise a sparare sugli abitanti, forse nell’intento e nella speranza di raggiungere e trovare le squadracce nere installate nell’asilo. Fu disarmato da un tale che gli appioppò quattro pugni sul naso che lo fece sanguinare abbondantemente. Vedendolo provai tanta pena. Chissà se quel disgraziato avrà capito cos’è il mostro.
Feci una lunga dormita, ma non troppo bene, perché quel letto morbido, che da tempo avevo dimenticato, mi fece sentire in bilico sulle onde del mare. Ma domani sarebbe stato un altro giorno, un giorno da rimboccarsi le maniche.
Incominciava un altro periodo storico, la democrazia. La gente si dava un’organizzazione e poteva contribuire allo sviluppo di una società più civile, più avanzata, più umana. Una società nella quale ognuno concorre nella misura che può dare in intelligenza, in capacità, in volontà, secondo le proprie attitudini. La mia Soresina diventerà una piccola graziosa cittadella, sensibile ai problemi della sua gente e alla vita associativa.