Autore
Severina RossiAnno
1988 -1989Luogo
Cremona/provinciaTempo di lettura
10 minutiIo cantastorie: libertà vo' cercando
Valutavo la scelta che avevo fatto nella vita. Il carcere era la mia università. Mi sentivo promossa socialista e non poteva essere diversamente, perché il mio ideale era nato con me con la presa di coscienza, cresciuto con me, scorreva nel mio sangue e nella vita bistrattata di tutta la mia gente per la quale nutrivo un amore così grande, viveva negli occhi di chi soffriva, negl’episodi quotidiani da valutare umanamente. È vero che di amore ne parlano le religioni, ma quelle leggi sono nulla sulla terra, gli uomini ne parlano ma non le mettono in pratica se non sono scritte nel codice del legislatore che le legittima e ne fa rispettare l’applicazione. Tutti hanno il diritto e il dovere dell’assistenza reciproca e sociale, ma non si deve delegare solo alla carità, sulla quale non si può contare, non coincide mai con i bisogni ed è il contrario della sicurezza sociale.  Forse era questo il punto che richiamava la mia attenzione e il mio confronto.
Era molto che non vedevo le stelle. Da quando nelle notti splendide d’estate, seduta nell’aia, le guardavo ammirata e cercavo di individuarle per nome per quel poco che avevo imparato. Quando ne vedevo una cadente formulavo un desiderio nella speranza si avverasse. Ora, invece, dormivo spesso perché nei sogni vedevo i miei cari come fatto naturale e cercavo di svegliarmi piano piano per prenderne atto a poco a poco. La primavera inoltrata faceva sentire il suo tepore che aveva sostituito il freddo della triste stagione. Filtrava con l’aria e scendeva giù giù nel profondo dell’essere. Connessa al ricordo gentile dei colori e dei fiori, degli alberi, degli animali e le mille cose della vita. Presto sarebbe venuta la Pasqua.
Una voce sommessa mi chiamò alla porta bussando leggermente, quasi con sospetto. Qualcuno, dal buco della serratura, mi passò un biglietto arrotolato raccomandandomi di distruggerlo appena letto. Avevo il cuore in gola e lo lessi più volte per persuadermi. Non era il primo biglietto che mi arrivava in quel modo, ma questo mi annunciava in anticipo l’insurrezione. Terminava così: “Preparati”. Il grande avvenimento era nell’aria ma da quel momento non ebbi più pace. Con grande sorpresa, dal reparto maschile si levò un coro unanime, robusto, con grande passione, un canto conosciuto, eloquente: “Su fratelli, su compagni...”, poi, “Fischia il vento, urla la bufera...” intonato con voce baritonale da Padre Gregorio, cappellano delle Brigate Matteotti, anch’esso da tempo detenuto.
Mai un canto fu così sentito, così emozionante, così vero, e nessuno, all’infuori dei presenti al fatto, può immaginare l’emozione e l’entusiasmo. In quel momento tutto il carcere uomini e donne, eravamo in piedi con le lacrime agli occhi. Il colonnello “SS” che dirigeva il carcere per la parte politica, il feroce saladino, coraggioso con i deboli, capì dove stava ora la forza e , da buon vigliacco, in fretta e furia si fece rimediare una bicicletta dai detenuti e, con quella, se ne andò senza fare ritorno.
Facevo una gran fatica a contenere l’ansia, non dissi nulla alle altre detenute, però qualcosa avevano fiutato perché erano nervose, parlavano concitate, facevano un baccano insolito come se la vita si fosse svegliata in quel momento e più passavano le ore sembrava che un ciclone avesse fatto straripare i fiumi. Avevo raddrizzato in piedi la branda come una scala e salita sopra cercavo di sbirciare dalla bocca di leone. Venne la suora e, chiamandomi in disparte, mi disse di adoperare tutta la mia influenza per invitare le detenute alla calma, al silenzio perché eravamo in pericolo. Sotto di noi, al piano terra nel corridoio, si erano piazzati i tedeschi e avevano passato la notte sulla paglia, erano molto tesi, non bisognava infastidirli perché avevano piazzato pure le loro mitraglie e, all’occasione le avrebbero usate senza pensarci due volte. Da quel momento i detenuti politici mi parvero ostaggi. Sentii prepotente l’incubo della fucilazione. Ero quasi arrivata al traguardo e mi sembrava impossibile dover morire così stupidamente.
Non fu facile, ma vinse il buon senso. Seppi che, in collaborazione, Vescovo e C.L.N. trattarono con i tedeschi e, superando le difficoltà, li dissuasero dai loro lugubri propositi.
I minuti sembravano un’eternità. Dalle detenute saltò fuori un pezzo di matita e me la regalarono. La consumai tutta, scrivendo a grandi caratteri sul muro sopra la porta, parafrasando il sommo poeta, quel po’ che ricordavo: “Libertà vo’ cercando, ch’è si cara, come sa chi per lei vita rifiuta”. In cella, ognuna preparava il suo fagotto o la propria valigia con qualche speranza, ma con molta ansia.
Fui chiamata in sala matricola ed ebbi una grande paura, ma vi trovai ad attendermi Dario Degradi e Carlo Corbari. Fu naturale e spontaneo un forte abbraccio, tutti e tre aggrappati con il cuore in gola e mi furono rivolte parola di riconoscenza per avergli “salvato la vita”. Eravamo commossi. Il direttore del carcere aveva ricevuto un messaggio radiofonico dal C.D.L. con l’ordine della nostra scarcerazione, un funzionario ci strinse la mano e ci disse che eravamo liberi, di andarsene pure, ma in silenzio senza dare nell’occhio. Bergamo non era ancora libera.
Secondo gli ordini ricevuti in precedenza clandestinamente, con quel tipo di posta che funzionava attraverso il buco della serratura, ci avviammo alla sede del C.D.L.
Quella luce del giorno non la ricordavo più, mi sovveniva il ricordo dei momenti in cui, sdraiata sul mucchio di grano, succhiudevo gli occhi per ripararmi dal sole abbagliante, che si nascondeva e appariva a tratti nel cielo ove vagavano enormi montagne invalicabili, gravide di pioggia in un quadro semovente, surreale e, in armonia con esso, vagava l’immaginario. Ma io esistevo veramente? Dunque ero viva?
[...]
 
Imboccammo un vicolo e ci mettemmo a correre al riparo delle grondaie, un po’ a fatica per le valigie ingombranti, ma anche perché, dopo tanto tempo, non eravamo più abituati a camminare speditamente. Arrivammo all’appuntamento designato in Ponte S. Pietro, ove trovai pure Bera, il mio compaesano.
Se la mia memoria non mi tradisce, fu il comando di piazza di Bergamo, a chiedere l’aiuto degli ex detenuti, in appoggio ai partigiani impegnati nell’insurrezione. A me fu affidato un mitra ed una bomba a mano, che mi servì come biglietto di presentazione. Con quel mitra portai a dormire i detenuti che man mano venivano dal carcere, sfiniti febbricitanti, affamati.
Decisa a trovare un tetto a quei disgraziati, per collocarli al riparo dagli spari, tutti in gruppo, sempre rasentando i muri, correndo qua e là come potevamo, ci recammo presso un istituto religioso. Un partigiano, a breve distanza, per sicurezza ci seguiva, Il tempo lasciva andare qualche goccia ma nessuno se ne curava.
Suonai il campanello e una suorina mise fuori appena la testa. Quando spiegai il mio problema, spaventatissima senza pronunciare una parola, mi sbatté la porta in faccia filandosela a gambe, ma fui più svelta di lei e “trachete”, vi infilai la canna del mitra, così la porta non si chiuse e invitai tutti a entrare. Sembravamo l’armata Brancaleone. Ci coricammo sul pavimento ormai al sicuro. Io mi trattenni poco e, all’alba, rividi la giovane suora più tranquilla sulle nostre intenzioni. Saputo chi eravamo veramente, si scusò salutandoci con maggior rispetto.
Anche Bergamo scrisse le sue pagine di storia conclusa con la fuga dei tedeschi e dei fascisti. Era il 26 aprile ’45. Noi non ci fermammo a cantar glori, partimmo diretti a casa per prendere contatto con le nostre formazioni. Ci mettemmo in viaggio, parte su un autocarro e parte su una vecchia corriere che, essendo priva di carburante, doveva essere trainata. La fiducia, la speranza, l’entusiasmo e la voglia di tornare non conosceva confini.
Appena fuori Bergamo, nelle campagne, un tedesco isolato che forse aveva perduto il collegamento col suo reggimento, sganciava tutte le sue munizioni mirando il nostro autocarro.
Non fu un viaggio facile e tranquillo, perché non era ancora organizzata la parola d’ordine , a un posto di blocco, prima di poter dialogare ci arrivò lo scoppiò di una bomba a mano per intimarci l’alt, mancandoci per un pelo. Paura e respiro sospeso, poi un breve chiarimento, poi i saluti festosi di partigiani e cittadini locali.
Si proseguiva allo scoperto con cautela e guardinghi, quando ci colse all’improvviso, da distanza ravvicinata, la sparatoria di una mitragliatrice aerea di una postazione tedesca, nascosta tra le erbe alte di un terreno incolto, sollevando e sparpagliando schegge di sassi ovunque. Per ordine dei nostri comandanti scendemmo velocemente a terra, riparando parte nei grossi tubi in cemento li in deposito per le fognature, rompendo ragnatele e disturbando insetti, altri giù per la scarpata ai lati della strada, incitati a correre il più possibile fino a portarsi fuori tiro.
Il comandante Bera, al volante dell’autocarro, il comandante Corbari al volante della corriera, coraggiosamente da soli, condussero gli automezzi passando indenni davanti alla mitraglia in funzione. Fortuna nessun ferito. Per il momento tutti salvi.,
Dopo alcuni chilometri di strada percorsa all’erta, ma in pace, si udì un bisbiglio sospetto di una radio trasmittente e, nella penombra notturna, interrotta dalle flebili luci dei nostri fari, si profilarono le sagome di ombre in movimento di uomini, armi e mezzi corazzati.
“Parola d’ordine”, gridò una voce perentoria.
“Non sparate, siamo tutti fratelli, basta con i morti”, rispose il comandante Corbari.
In un baleno venne distribuita qualche pistola. Io avevo sempre il mio mitra, completamente scarico e una bomba a mano tedesca, una specie di pallone blu, vistosa, affidata a me che “avevo i nervi saldi”, consegnatami con la raccomandazione di non usarla, che di sangue in Italia, ne era già corso troppo.