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Il 13 luglio 1944 è il giorno fatale, e il tredici stavolta non mi porta fortuna. La giornata cominciò prestissimo, alle 2 del mattino, e già all'inizio non fu buona. L'appuntamento alle Borre con un camioncino, forse combinato da Tommaso Fornaciari, saltò perchè i tedeschi la sera prima avevano portato via le gomme. Sconsolatamente feci ritorno alla Guanella. Non rimaneve altra soluzione che quella di inforcare la vecchia bicicletta e mettersi a pedalare per Bologna. Ero vestito con pantaloni alla zuava, una camicia ed un gilet che era stato di Gigino Donzelli. Nella fodera del gilet erano stati cuciti i bigliettini consegnatimi dai bolognesi e la velina del campo di lancio datami da Checca. Tutta roba molto compromettente.

Partii salutato dalle raccomandazioni della mamma. Ricordo molto bene che mi sentivo stanco e con le gambe molli, ma non c'era nulla da fare. Dovevo andare. Pedalai veloce giù per la nota strada Montese­ Porretta, di cui ogni curva non aveva segreti, frenando pochissimo, come avevamo imparato a fare (e mio fratello Checca era lo specialista di discesa ed aveva la tecnica di non frenare mai: ma un giorno uscì da un curvone sopra il bivio di Gaggia alla mano sinistra investendo in pieno un povero barbiere di Porretta che saliva in senso opposto, quasi rompendogli una gamba).

Dopo il bivio di Gaggio c'è un lungo tratto di discesa e falsopiano che percorsi velocemente senza fatica presentandomi a tutta pedalata all'inizio del rettifilo che in leggera discesa porta a Silla, dove con curva a novanta gradi mi sarei dovuto immettere sulla statale Porrettana. Vidi subito da lontano che verso la fine del rettifilo era in sosta, appoggiata al parapetto della strada sulla mano destra, una lunga fila di soldati tedeschi con elmetto e fucile, probabilmente un reparto in transito diretto al fronte che allora era a Firenze. Pensai subito che le cose si complicavano,  ma null'altro potei fare se non avanzare imperturbabile sulla mia bici, con il cuore che mi batteva forte e dicendo fra me "pedala senza guardare i soldati". Se riuscivo ad arrivare al bivio ed a svoltare a sinistra il pericolo l'avrei lasciato alle spalle. Pedalai fiancheggiando i soldati fermi alla mia destra, avanzai cinquanta poi altri cinquanta metri e sentii alle mie spalle "ALT!". Feci conto di non sentire, pur rallentando. Un secondo imperioso "ALT!" mi fece fermare mentre un tedesco mi si avvicinava e mi fece scendere dalla bicicletta. Mostrai tutti i documenti che avevo. Il tedesco li guardò e scomparve in una casa lasciandomi in consegna ad un altro soldato. Aspettai, ancora speranzoso che dopo l'esame dei documenti mi avrebbero lasciato ripartire. Il primo tedesco ritornò e mi disse di seguirlo: fui introdotto in una stanza semibuia alla presenza di un giovane ufficiale, in canottiera, seduto su un letto, un viso scuro, capelli corvini e ondulati, che in italiano perfetto mi disse che i miei documenti dovevano essere verificati e che in attesa non potevano rilasciarmi. Feci qualche obiezione dicendo che avevo tutte le carte in regola. Niente da fare. Un urlo di comando e un soldato mi accompagnò in una specie di cortile, dietro una casa bianca di Silla, contornato da rete metallica e guardato da strani militari, in divise kaki e pantaloncini corti, che poi seppi essere italiani delle SS. Lì mi rinchiusero in una specie di sgabuzzino (forse un ex pollaio o un ex stalletto per maiali) nel quale, seduti in terra sulla paglia c'erano altri cinque giovani che vedendomi cominciarono a tempestarmi di domande. "Perchè ti hanno preso, perchè passavi di qui, quanti anni hai, avevi i documenti in regola ecc.". Dissi il minimo perchè ero molto sospettoso. Uno, giovane in apparenza più di me, magrolino con gli occhiali con l'aria per bene mi disse: "Io ho sedici anni, mi chiamo Tagliazucchi, sono di Reggio Emilia, mio papà è ingegnere, ho le carte in regola, ma sono qui da una settimana e non so il perchè". Così un altro, certo Boetti, con la sua famiglia sfollata a Porretta. Poi uno con pantaloni e camicia militare, una faccia spaurita e slavata, che di notte si faceva una puntura (forse un drogato?), e che si disse disertore dell'esercito repubblichino. E altri due che non ricordo. Tutti si chiedevano il perchè di quella prigionia. Io ero molto preoccupato di quanto avevo cucito nel gilet e riuscii a distruggere i bigliettini senza dare nell'occhio. Poi, tramite una donna del posto, non so esattamente ricordare chi - forse era una abitante della casa grande e bianca sulla mano sinistra andando verso il bivio per Bologna, a circa cento metri dall'incrocio - feci avere al mugnaio di Silla, un certo Guccini che conosceva la mamma, un bigliettino scritto a lapis in cui lo pregavo di avvertire mia madre che ero a Silla preso dai tedeschi e che venisse a trovarmi. Il bigliettino, formato 9 centimetri per 11, è stato conservato prima dalla mamma ed ora da me, fortunatamente, e dice testualmente

 

Vidi subito da lontano che verso la fine del rettifilo era in sosta, appoggiata al parapetto della strada sulla mano destra, una lunga fila di soldati tedeschi con elmetto e fucile, probabilmente un reparto in transito diretto al fronte che allora era a Firenze.

(recto)

"Caro Signor Guccini, lei conosce mia madre, la sig. Berti della Guanella che è stata da lei per una notte. La pregherei di render noto a mia madre che sono qui a Silla, fermato dai tedeschi. Le faccia dire che venga al più presto e che si interessi della cosa. Non stia in pensiero per me. Spero che tutto vada bene. Mi raccomando molto

Paolo Berti"

(scritto sui bordi di traverso)

"Mia madre non venga di notte perchè è proibito".

"Credo che ci siano degli uomini di Romani a Silla".

(verso)

"Al signor Guccini, mugnaio di Silla

per cortesia URGENTE

per la Signora Livia Berti Araldi"                               "URGENTISSIMO'

Ero prigioniero di un reparto di SS italiane, impegnate nella lotta antipartigiana, comandato da un certo tenente Trucchi (quello in canottiera che mi aveva annunciato gridando che ero fermato per accertamenti), ma dipendente dai tedeschi.

Il tono del bigliettino con quel pleonastico "non stia in pensiero per me" e pur nella forma quasi burocratica "La pregherei di render noto" tradisce l'ansia e l'agitazione del momento, con quel "Le faccia dire che venga al più presto" e poi quell’”urgente” e "urgentissimo" scritti in maiuscolo, alla fine prima di consegnare il bigliettino nelle mani della donna.

Forse gli uomini di Romani, che era un grosso commerciante di legname al quale avevamo venduto in passato partite di castagno e di abete, forse qualcun altro avvertirono subito mia madre, che puntuale e accorata arrivò nello stesso pomeriggio del giorno 13 e ricordo la mia gioia di vederla al di là della rete, chissà con quale ansia in petto. Eppure mi fece subito coraggio e mi disse che avrebbe cercato tutte le strade per farmi liberare. Il mio morale era a zero ed il problema non era tanto la paura ma il fatto di essere caduto in trappola e di non poter portare a termine la mia missione per Bologna.

In effetti, come in seguito mi fu chiaro, avrei dovuto temere molto di più, di quanto non feci, per la mia vita perchè il motivo del mio fermo era solo quello di un ordine del Maresciallo Kesselring che diceva di costituire lungo le linee di comunicazione gruppi di ostaggi italiani da fucilare per rappresaglia ad azioni dei partigiani contro le forze armate tedesche.

Ero prigioniero di un reparto di SS italiane, impegnate nella lotta antipartigiana, comandato da un certo tenente Trucchi (quello in canottiera che mi aveva annunciato gridando che ero fermato per accertamenti), ma dipendente dai tedeschi. Questo seppi dai soldati che ci facevano la guardia: italiani che dicevano a noi di essersi arruolati per avere da vivere e che quando venivano impegnati in rastrellamenti sui monti cercavano di defilarsi per evitare scontri con gli italiani. Noi non parlavamo. Un giorno ci allinearono fuori nel cortile e dissero: "Toglietevi i vostri vestiari che li laveremo. Vi diamo degli abiti militari". E così facemmo. Ma l'operazione, come si può ben immaginare, non ci lasciò tranquilli. Sapemmo poi che quei soldati si erano vestiti in borghese con i nostri indumenti per fare delle  azioni  di rastrellamento sui monti. E tramite la mamma la notizia giunse anche alla nostra formazione. Gigino mi disse mesi dopo che si erano preparati a combattere contro qualcuno vestito come me.