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Ricordo come se fosse accaduto ieri, e sono passati più di quarantacinque anni. Dopo un giorno, il 14 ottobre, di assoluto silenzio, senza tedeschi e senza americani, tesi e sconcertati, increduli e ansiosi di sapere cosa sarebbe successo, dormimmo stipati nella cantina Malassi o forse in parte ancora nella camera della donna, la notte fra il 14 e il 15. Il 15 mattina alle prime luci dell'alba uscì forse Ettore Malassi e dall'aia scrutò tutto attorno: vide sul monte di Bombiana stagliate scure contro il cielo rischiarato dalle prime luci tre sagome inconfondibili di carri armati: erano dei "Patton" della I divisione corazzata USA facente parte del C.C.B ("Combat Command B") agli ordini del colonnello Dewey questo ho accertato poi sui libri della campagna d'Italia. Ma allora erano la libertà. Ettore chiamò Checca e me a vedere. Sì, erano proprio là, visibilissimi fermi sul monte con i cannoncini puntati verso nord. "Allora i tedeschi se ne vanno e i carri armati li inseguono" ci dicemmo. Sollevati da questa meravigliosa scoperta mangiammo pane e latte nella nostra cucina: e mentre mangiavamo una ragazza Malassi che era uscita sull'aia rientrò di corsa con una faccia sorpresa "Vgnì a vedder da Caramela vegnenn so' di soldà". - Corsi fuori. -"Dove sono?" chiesi perchè si vedevano solo i campi e gli alberi. "Non sì vedono”. "Ma sì laggiù contro la siepe, adesso ce ne è uno dietro il pagliaio". E lo vidi, il primo soldato americano vestito di kaki con l'elmetto e la carabina pronta a sparare. Procedeva cautamente. Qualcuno disse interrogativamente "Ma sono americani o tedeschi?". Ma il soldato che avevo visto ogni tanto si voltava indietro e faceva dei segnali con il braccio ad altri che evidentemente lo seguivano e che non non vedevamo ancora. Ci vide. Corse verso di noi che gli sorridevamo. "I tedeschi, dove stanno i tedeschi, paisà?" furono le sue prime parole. Era piccolo, moro e riccio e parlava un approssimativo italiano con spiccato accento meridionale. Forse uno di quegli italo-americani di seconda o terza generazione che abitavano a Brooklin o Broccolino come dicevano in quel singolare linguaggio fatto di parole inglesi, italiane, napoletane, abruzzesi o siciliane che mi colpì poi quando nel 1953 fui a New York.

Intanto arrivarono sull'aia con un po' di fiato grosso per la salita compiuta di corsa altri 7 o 8 soldati: era una pattuglia comandata da un giovane tenente - sull'elmetto aveva un rettangolino bianco davanti, per il resto era vestito identico ai soldati; vedemmo con nostra meraviglia che impugnava una pistola Beretta. Tutti, ed eravamo forse una ventina, li festeggiammo. Entrarono in cucina, ci offersero sigarette, ma alla nostra gioia rispondevano con preoccupazione "dove sono i tedeschi?". Ricordo che il tenente offrì a Checco una sigaretta "Philip Morris" e Checco, che nel periodo di isolamento in casa Muzzarini aveva diligentemente studiato l'inglese, rispose con un perfetto e letterale "I do not smoke" che il tenente americano corresse in "I don't smoke". Nè io, nè Checco fumavamo, ma gli altri uomini accesero quelle ottime sigarette dalla concia profumata e così diverse dall'acre odore del trinciato forte con il quale erano abituati a prepararsi le sigarette fatte da loro a mano con le cartine.

Per noi, in quel momento, la guerra era finita e i tedeschi battuti ed in fuga. Non comprendevamo come mai ci fosse tanta prudenza e prendevamo quasi in giro i soldati per quel loro fare circospetto.

Per noi, in quel momento, la guerra era finita e i tedeschi battuti ed in fuga. Non comprendevamo come mai ci fosse tanta prudenza e prendevamo quasi in giro i soldati per quel loro fare circospetto. Dalla cucina passammo in entratina e di qui uscimmo in giardino. Un filo telefonico spezzato andava in direzione dei Guidellini. Appoggiati al cancellino di legno indicammo al tenente americano monte Castello e la casa bianca dei Guidellini, a meno di un chilometro di distanza da noi. "I tedeschi si sono ritirati in quella direzione"· dicemmo. La pattuglia allora sfilò di corsa e a schiena bassa sulla Maestà , nascondendosi dietro la siepe in direzione della Ca’.

Non facemmo a tempo a riflettere: gli uomini erano appena andati a vedere le loro cose, Ettore nella stalla, Muzzarini in casa sua e così via, che arrivarono le prime cannonate tedesche.

Facendo un conto oggi, a posteriori, dei tempi si può considerare che la pattuglia americana si trattenne alla Guanella forse quindici o venti minuti. Gli osservatori tedeschi ai Guidellini la videro certamente quando con noi si affacciò al cancellino e con il telefono avvertirono le artiglierie piazzate nella zona di Maserno e Montese al di là di monte Castello. Se ben ricordo dopo non più di dieci minuti dalla partenza della pattuglia arrivarono le prime cannonate. Fu un bombardamento micidiale, che colpì ripetutamente la Guanella e di cui ho già parlato nei miei "Ricordi" della Guanella. Certamente fu causato dalla nostra imprudenza di esporci con gli americani alla attenta osservazione dei tedeschi. Ma bisogna considerare quanto ho detto prima: eravamo convinti che tutto fosse finito e che i tedeschi fossero in fuga. La strapotenza degli Americani ci pareva enorme, la loro prudenza esagerata e risibile: non sapevamo che la offensiva alleata in Italia stava esaurendosi, che le forze tedesche erano in quel momento più o meno pari a quelle alleate (il fronte italiano era divenuto, nella strategia globale alleata, secondario dopo lo sbarco in Normandia e alcune divisioni americane erano state distolte dall'Italia e utilizzate per lo sbarco di mezz'agosto sulla Costa Azzurra alleggerendo così la pressione in Italia), che monte Castello sarebbe diventato uno dei bastioni di difesa delle armate di Kesselring sulla "Gotica", l'ultima linea tedesca prima della pingue pianura padana, e che le truppe tedesche avrebbero resistito su quella linea per altri quattro - cinque mesi.

Tutto questo non sapevamo ed il giorno dopo invece della fin dei guai per la nostra Guanella, dovemmo abbandonarla.

Vi saremmo tornati solo quando il fronte, caduto finalmente monte Castello il 21 febbrao 1945, si spostò in avanti.

 

[...]

Quando sono già sul camion in partenza scorgo Nino. Non posso trattenermi dall'urlargli che è un porco, che non è un partigiano. E' uno sbocco sincero di ira.

Si va a Pescia

 

L'11 aprile arrivò la mazzata. Scrissi sul diario:

"Oggi, secondo calcoli, doveva finire la guerra. Per noi invece è il giorno che tanto temevamo. Andiamo all'adunata con un brutto presentimento. Ci schierano tutti in quadrato: giunge Alessi con il governatore di Castiglione dei Pepoli (quel famoso capitano dai baffi rossi della notte di Pioppe di Salvaro). Prima parla brevemente Alessi, piuttosto abbattuto, poi è la volta del governatore che con voce stridente comunica che, secondo le disposizi0ni del comando americano, solo una parte dei partigiani della divisione Bologna è stata designata per il combattimento. Gli altri partigiani saranno condotti in un centro di raccolta, da dove poi saranno impiegati qualora se ne presenti la necessità. Ringrazia ipocritamente tutti per l'opera svolta oltre che a nome suo a nome del generale Alexander e del comandante dell'OSS. Ci assicura che nel posto di raccolta saremo assistiti convenientemente e che non mancheranno i divertimenti. Quindi il tenete Alessi dà inizio alla lettura dei nomi di coloro che rimangono. E' in questa lista lo schifoso gioco fattoci da Nino: sono quasi tutti della brigata Matteotti e di Gianni (Stella Rossa). Dei nostri (G.L.) rimangono solo Leonelli e Aroldo più quattro o cinque di Corrado. La cosa è avvilentissima. Durante il discorso giungono i camion che ci porteranno a Pescia. Difatti appena terminata l'adunata e dopo essere stati fotografati, ci ordinano di fare subito i nostri bagagli e di salire sul camion. In uno stato d'animo indescr1vibile raduno in fretta la mia roba. Sono indeciso se andare a Pescia o fuggirmene a casa. Ma penso che è più leale condividere la sorte dei miei compagni. Poi in tutti i casi avrò la possibilità di ritornare, così assicura il tenente Alessi. Quando sono già sul camion in partenza scorgo Nino. Non posso trattenermi dall'urlargli che è un porco, che non è un partigiano. E' uno sbocco sincero di ira. Difatti Nino è stato di una slealtà schifosa ed in più di una grande vigliaccheria perchè durante il discorso non ha avuto il coraggio di mostrarsi. Questo fatto non gli verrà mai perdonato da noi, perchè lui ci ha veramente sabotato, lui, falso partigiano, ha sabotato noi e con noi l'idea partigiana. E' un falso, falsissimo: il tiro che ci ha fatto lo dovrà scontare."

Questo sfogo violento, indice di un'offesa enorme e di una mancanza di qualsiasi scusante sulla condotta indegno di Nino, merita una spiegazione, che dò oggi a mente fredda.

Dissi nel diario a proposito di questa notte: "Forse una delle più brutte della mia giovane vita". Sinceramente oggi constato che dovevo essere molto giù di morale per non poter dormire, noto dormiglione qual sono.

 Nino era Nino Baroncini, socialista bolognese, ispiratore della brigata Matteotti di montagna. Antifascista, cospiratore sotto il regime, non tanto alto, stempiato, con una faccia tonda, un fare un po' mellifluo, così almeno lo ricordo, era a Ca' di Landino il commissario della brigata Matteotti comandata da Mario (Mario Bacchelli) che aveva preso il posto di Toni (Toni Giuriolo) morto il 12 dicembre '44 in combattimento alla Corona sotto monte Belvedere.

Nino era più anziano di noi tutti, molto politicizzato, e sapeva evidentemente come ingraziarsi gli americani che avevano poca esperienza delle beghe politiche fra comunisti, socialisti, azionisti ecc., ed una sola preoccupazione: non dare troppa corda ai "rossi". Nino protesse i suoi matteottini meglio di quanto non facesse Pietro, troppo assente; e per far ciò si comportò in modo scorretto lasciando la loro destino quelli di G.L.

Ragionata a distanza di tempo la cosa appare quasi rientrante nella norme e non spiegherebbe l'ira e la violenza delle mie parole. Io so e ricordo però che questo stato d'animo di rivolta all'operato di Nino fu condiviso dai miei compagni che assieme a me si considerarono traditi e delusi sia degli americani, sia, e soprattutto, di Nino che con il suo modo di fare poco sincero ci ferì profondamente.

Questo Nino si dava anche po' di tono, forse perchè più anziano ed esperto di noi, e godeva fama di essere inflessibile. Ricordo che c'era con noi un certo Tarzan, aggregato alla Matteotti, che il Dottore, Wilmo Cappi mio amico, dovette curare per quello che allora veniva chiamato lo "scolo". Wilmo mi disse che Tarzan era preoccupatissimo che la cosa non venisse alle orecchie di Nino perchè temeva di venir punito essendo la malattia un indice di poca moralità.

Per me era molto più immorale il comportamento di Nino in quell'occasione.

Passata la solenne arrabbiatura (un indice precoce di "borghina" come, dal cognome della famiglia di nostra nonna paterna Bianca Borghi nota per certe arrabbiature improvvise, vengono definite queste intemperanze che in età più matura sono anche più frequenti) e dopo lunghe ore di avvilimento durante il viaggio giungemmo a Pescia al centro raccolta patrioti n. 2, situato nell'Istituto tecnico agrario entrando in paese sulla destra a mezzacosta, così mi ricordo e così era ancora qualche anno fa quando ci sono passato.

Appena giunti ci distribuirono del pane ed un arancio, poi ci alloggiarono in una ex caserma in un grande stanzone con brandine militari senza materassi. Eravamo una sessantina. Nella notte dormii pochissimo tormentato dal freddo e dal baccano che fecero certi toscani.

Dissi nel diario a proposito di questa notte: "Forse una delle più brutte della mia giovane vita". Sinceramente oggi constato che dovevo essere molto giù di morale per non poter dormire, noto dormiglione qual sono.