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E' il 21 aprile 1945, sabato, il giorno della liberazione di Bologna. Ed ecco la descrizione originale di quella giornata indimenticabile: "Le notizie sulla presa di Bologna sono molto contraddittorie: di sicuro non si sa nulla, ma il movimento verso Nord è immenso. Questa mattina sono passati un'infinità di carri armati. Qualcosa deve essere successo. Si è quasi sicuri che il fronte è irrimediabilmente sfondato. Ci sono stati distribuiti gli elmetti inglesi ed io ne ho preso uno con lo stemma degli alpini. Dopo colazione ero nella tenda quasi assopito quando un grido e un gran movimento mi fanno alzare di soprassalto. "A Bologna, si va a Bologna, fare in fretta i bagagli!" Non ho nemmeno il tempo di pensare a questo avvenimento aspettato da mesi e mesi. Subito si disfa assieme al Dottore la tenda, si fanno i bagagli ad una velocità mai vista e tutti di corsa al camion che ci deve portare nella nostra città. Siamo in troppi, più di quaranta, il primo gruppo agli ordini di Sandro. Non possiamo starci più di venticinque. Ne debbono smontare. Quale tristezza nell'obbedire scorgo negli occhi dei destinati a rimanere, vale a dire rimandare la partenza a domattina. Come Dio vuole con armi e bagagli, stipati come sardine in scatola (ma che conta, per Bologna!) partiamo. Solo le 4 del pomeriggio e si va su per salite. Il camion sbuffa ma va sempre avanti verso Bologna.

Ci portiamo sulla strada della Futa; passiamo Loiano molto rovinato dalle cannonate, poi ridotto ad un ammasso di pietre: si sente puzza di cadaveri e infatti morti tedeschi giacciono ai lati della strada assieme a cavalli, scheletri cli automezzi e carri armati.

Man mano che ci avviciniamo alla città il traffico aumenta: ci sono colonne di automezzi e carri armati della divisione Legnano: i bravi soldati d'Italia si fanno sempre onore! In una curva il camion nostro va in pieno in un buca di una cannonata. Raggiungiamo una tal inclinazione che per pochissimo non ci ribaltiamo. Molti ragazzi sono stati sbattuti in terra, specie quelli che erano davanti sopra la cabina dell'autista, ma nessuno si è fatto male, per fortuna. Smontiamo tutti e a forza di braccia il camion è di nuovo in strada. Passiamo per Pianoro: il paese è ridotto in modo impressionante. Non più una casa abitabile, tutto distrutto e saccheggiato. Procediamo avviliti per un così terribile spettacolo che si ripete man mano. La marcia si fa sempre più lenta. E' una colonna interminabile di automezzi. Ci dicono che davanti a noi ci sono 7 chilometri di macchine: è l'ultima attesa che dobbiamo sopportare per Bologna. Attesa estenuante. Ormai è buio. Facciamo cinquanta metri e poi ci fermiamo. Davanti a noi c'è un cannone di grossa portata trainato da un trattore. Passiamo ore in questo modo. Ci teniamo svegli, per quanto la stanchezza cerchi di vincerci. Finalmente giungiamo al ponte di s. Ruffillo: dobbiamo passare per il fiume, essendo il ponte saltato.

Giungo davanti al portone di Solferino 11. Quale emozione provo rivedendo la mia via, la mia casa! Busso, suono la campana, nessuno risponde. Ribusso. Nulla. Comincio ad impensierirmi quando finalmente i Lelli mi sentono.

Superiamo quest'ultimo ostacolo, poi, essendosi la colonna diradata, marciamo a tutta velocità verso Bologna. Aumenta sempre più la nostra desolazione vedendo le campagne e i villaggi distrutti completamente. Ma come entriamo nella immediata periferia della città ci solleviamo: tutto è quasi intatto. I danni maggiori sono quelli dei bombardamenti che già vidi l'agosto passato. Gioiamo, vediamo la nostra città quasi intatta. Il camion prima ci porta in via Gandino dove c'è il comando del nostro scaglione, poi in via Borgolocchi alla caserma dove sono gli alpini; Scarichiamo tutta la nostra roba, poi alcuni rimangono a dormire in caserma, altri se ne vanno a casa dopo tanti mesi di lontananza.

Anch'io mi carico del mio zaino e assieme al dottor Wilmo mi avvio verso casa per le strade a me ben note: tutto è deserto data l'ora tarda, sono le 23. Si ode ogni tanto il vociare di qualche alpino. Giungo davanti al portone di Solferino 11. Quale emozione provo rivedendo la mia via, la mia casa! Busso, suono la campana, nessuno risponde. Ribusso. Nulla. Comincio ad impensierirmi quando finalmente i Lelli mi sentono.

Grido forte: "Sono Paolo, aprite!". La gente è ancora sotto il terrore nazifascista e ha paura. Sento che prima di aprire parlottano: "Ma sarà lui o non sarè lui?". "Sono Paolo" grido ancora e finalmente si spalanca il portone. Incontro le braccia aperte dell'Annina. E' un abbraccio affettuosissimo pieno di gioia e di meraviglia. Incontro la prima persona cara che da otto mesi più non rivedevo. Ad uno ad uno tutti mi si buttano al collo: rivedo Rondelli, la Luisa, la Laura, la Gabriella ed Augusto. Rimetto piede nella mia casa, tutto è come prima. Quanto abbiamo atteso questo momento e con quale timore, ma ora quanta gioia nel vedere che tutto è normale. So subito notizie di tutti i parenti. Stanno tutti bene, anche Frisco e Marco. Mario è salvo! Ora è con una formazione a monte S. Pietro, rientrerà presto in città. Racconto ai Rondelli le nostre peripezie e loro a me quello che hanno passato in questi tempi: ma vedo che la vita a Bologna era abbastanza calma e che la guerra è passata con una rapidità tale che quasi non se ne sono accorti. Infatti le prime truppe polacche sono entrate questa mattina alle prime luci dell'alba e i tedeschi e i fascisti erano fuggiti tutti durante la notte. I partigiani cittadini si erano già impossessati del controllo della città. Anche la situazione alimentare è discreta.

All'una di notte circa mi corico su un letto ottimo con lenzuola. Da quanto tempo non avevo una tale comodità! E’ il principio della ripresa di quella vita normale che da tanto tempo aspettavo. Che notte magnifica, la più bella forse da che vivo!".

Nella caserma di via Borgolocchi, dove era stata fino alla sera prima una tremenda brigata nera fascista, c'erano elmetti neri, coperte militari insanguinate, armi abbandonate in una grande confusione.

A quanto scritto a caldo allora nel mio diario voglio aggiungere alcuni altri ricordi che mi colpirono indelebilmente.

A un certo punto sulla strada della Futa passato Loiano nella giornata limpida si stagliò in lontananza contro il celeste del cielo il profilo di S. Luca e dal camion si sollevò urlato da tutti noi il grido "S. Luca, S. Luca!", quasi si trattasse di un miracolo e, fra i tanti, incontrari gli occhi gioiosi di Enzo Biagi che pure urlava pazzo di felicità.

Dopo S. Ruffillo mentre il camione - un Dodge color kaki con l'insegna tricolore del "Legnano" - avanzava più velocemente in quella che si chiamava via Toscana (ora via Murri) verso la città ci affiancò un ciclista che ci salutò entusiasta, E noi fummo tutti una domanda: "Bologna com'è?". Lui ci tranquillizzò dicendo: "Dentro le mura come l'estate scorsa" e il camion accelerò lasciandolo indietro con noi tutti protesi a guardare.

Nella caserma di via Borgolocchi, dove era stata fino alla sera prima una tremenda brigata nera fascista, c'erano elmetti neri, coperte militari insanguinate, armi abbandonate in una grande confusione.

Io me ne andai a piedi con Wilmo in una Bologna deserta e silenziosa con il mio fucilone Enfield a tracolla. Un po' incosciente perchè bastava un malintenzionato franco tiratore (come era accaduto a Firenze) per farci fuori tutti e due. Imboccai via Solferino vuota e deserta, venendo da via Arienti, via Rubbiani, viale XII Giugno. La via non era illuminata ma c'era la luna e lo spettacolo era spettrale - deserta voleva dire allora completamente sgombra di macchine e altri veicoli in sosta che oggi abbruttiscono ogni strada ma la mia gioia intrattenibile. Aumentai l'andatura. Si sentiva solo il rumore dei nostri passi rimbombare nella strada.

Dopo tanto bussare e gridare in via Solferino 11 mi fu aperto e mi trovai, come scrissi, nelle braccia della zia Amina e tanta altra gente intorno più o meno vestita perchè era già andata a letto. Si precipitarono giù dalle scale le cugine Rondelli in camicia da notte. Poi videro oltre me Wilmo e corsero via un po' vergognose dicendo: "Ma c'è anche un uomo estraneo",

In fretta e furia ci furono preparati due letti nella stanza dei nonni poi divenuta della mamma, con la finestra sul giardino. Dopo i festeggiamenti e le grandi emozioni della giornata storica piombammo in un sonno profondissimo.

Al mattino dopo con grande mia meraviglia fui svegliato dallo starnazzare delle oche che erano nel giardino e ancora a letto vidi arrivare mio cugino Marco Martelli e altri parenti.

L'intero stabile ed il giardino erano affollatissimi di gente ed animali. Infatti dall'autunno del '44 Bologna era stata dichiarata "città aperta" nella zona dentro le mura, la cosiddetta dai tedeschi "Sperrzone" con tutte le porte controllate dalla Feldgendarmerie, e praticamente in tal modo salvata dai bombardamenti alleati.

A proposito delle oche nel giardino debbo dedicare qualche annotazione allo stato di via Solferino 11 in quei tempi.

L'intero stabile ed il giardino erano affollatissimi di gente ed animali. Infatti dall'autunno del '44 Bologna era stata dichiarata "città aperta" nella zona dentro le mura, la cosiddetta dai tedeschi "Sperrzone" con tutte le porte controllate dalla Feldgendarmerie, e praticamente in tal modo salvata dai bombardamenti alleati.

La popolazione della periferia e dei dintorni, compresi i contadini ed il bestiame, affluì in città sistemandosi come era possibile: nelle case, nei giardini, nei parchi dove fu mantenuto anche il bestiame (buoi, mucche, animali da cortile ecc.) che costituì fonte alimentare per la popolazione e di ammasso di letame che ricordo era ammucchiato anche nel nostro giardino in gran cumulo verso il muro di via Mirasole. Bologna raggiunse entro le mura in quel periodo, da quanto ho poi appreso da una pubblicazione su "Bologna città aperta" del podestà del tempo ing. Agnoli, 500.000 abitanti e 11.000 capi di bestiame.

Un elenco degli inquilini ed ospiti di' via Solferino 11, obbligatorio al tempo per le autorità di polizia nazifascista, compilato a mano da mio zio Beppe Randelli (e gelosamente conservato da mio cugino Augusto che lo ha trasmesso a mio fratello Checco) precisava, in data 22 novembre 1944, con cognome, nome, paternità, maternità, data di nascita, luogo di nascita, razza e nazionalità, un totale di cinquantasei persone presenti al piano terreno ed al primo e secondo piano, nell'aia dell'attuale mio appartamento e nella "bugaderia" ed in giardino, dove per l'appunto oltre ai buoi ed al bestiame vario dei contadini dei poderi di Casaglia di mio zio Pericle c'erano le famose oche che mi diedero la sveglia il 22 aprile mattino.

C'erano oltre gli inquilini normali (i Lelli, i Simoni, le Calza, la Costanzina Rusconi, Armando e la Norma) gli amici Guardabassi, la mamma di Trombetti con la figlia Pina, Adelmo (l'autista dei Martelli che ci aveva condotto tante volte in giro per Bologna e alla Torre con la magnifica 522 Fiat berlina della zio Pericle) e relativa famiglia, i Pungetti contadini di Casaglia, Carlo Randelli ex partigiano della Stella Rossa nascosto al secondo piano in una vecchia stanza che nel locale del gabinetto aveva una botola comunicante con un vano piccolo dove si rifugiava in caso di pericolo.

Questa botola e relativo locale nascosto sono stati murati di recente nel corso di lavori di riattamento che io ho  fatto nella mia parte di via Solferino.

C'era anche la famiglia Giordani di cui la Gianna, mancata di recente non molto dopo la scomparsa del marito, divenne poi la moglie di Carlo: galeotto fu dunque quel nascondiglio!

C'era Andrea Bensi (italiannizzazione del cognome Bencich) di cui ho già parlato, ed un certo signor Paolo Hofmann, nato a Berlino l'11 aprile 1903, un ingegnere tedesco disertore accolto dai Randelli. La sua divisa militare era stata sepolta in giardino con grave rischio ed ansie che mia zia Amina mi descrisse poi ancora angustiata da quelle che avrebbero potuto essere le conseguenze di un ritrovamento.

Questo ingegnere era stato sopranominato "l'ingegnere Collasso", mi raccontò ridendo mio cugino Augusto, perchè sosteneva sempre da quando fu nascosto nell'autunno '44 in casa Randelli che i tedeschi erano vicini al collasso. Purtroppo ebbe ragione solo dopo sei mesi e più.

Per me al risveglio nel mattino della domenica 22 aprile '45 questa eterogenea popolazione di via Solferino fu una delle tante gioiose sorprese.