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Il 30 giugno 1944 fu il mio primo giorno nei "ribelli": arrivai nella, pineta di Ronchidose (meta negli anni precedenti di tante gite noi bambini con la mamma si faceva la colazione al sacco alla fontana, la mamma diceva "sentite come è buona questa acqua" ed era veramente così ed il nome Ronchidose voleva dire gioia e felicità di una bella passeggiata fra i monti) accompagnato dalla mamma e dal fedele Vitali carico di un sacco con un prosciutto, del pane ed altre vettovaglie. Io credo portassi il solito zaino con il cambio di vestiario e forse un panno per coprirsi alla notte. Addentratisi nella pineta, per la nota strada, ad un certo punto come dal nulla comparve davanti a noi un tipo magro, con la faccia scura ed un profilo che, chissà perché, lo faceva parere un barbaro. Ci chiese chi eravamo e dove andavamo. Fu facile farci riconoscere. Credi, così si chiamava il valoroso partigiano che fu in seguito ferito in combattimento sul crinale della Serra alla fine di ottobre ciel '44, ci disse di procedere fino alla chiesina. Qui, nei sotterranei, c'era mio fratello Checco, intento a fare il cuoco preparava patate da friggere ed uova, ed altri, forse una ventina o poco più. Qualche nome di battaglia (nessuno si chiamava con il proprio nome, era una regola, per evitare che in caso di cattura uno potesse far dei nomi) che ricordo: "Garibaldi", "Rosina", "Il Lungo", "Binda", "Giandòn", "Il Biondo".

Alcuni erano di guardia. Pochissime le armi. Qualche rivoltella, qualche moschetto ed un mitra “Beretta” in dotazione al Capitano Pietro, Ma si era fiduciosi ed entusiasti. Da notizie avute da Firenze sapevamo che dopo il messaggio speciale “Giaggiolo di monte” trasmesso da radio Bari avrebbe dovuto verificarsi il lancio con i paracaduti di armi, vestiario e viveri da parte di aerei alleati in una delle notti di tempo sereno seguenti la trasmissione del messaggio.

Qualche nome di battaglia (nessuno si chiamava con il proprio nome, era una regola, per evitare che in caso di cattura uno potesse far dei nomi) che ricordo: "Garibaldi", "Rosina", "Il Lungo", "Binda", "Giandòn", "Il Biondo".

Ora quella sera, la mia prima sera di partigiano, era bella e serena.        

Il messaggio era stato trasmesso forse due giorni prima. E il Capitano Pietro, comandante, e Gigino, vice-comandante, assieme a dieci uomini fra i quali io, sia avviarono nella notte verso Castelluccio di Roscheda.

Non molto dopo la famosa fontana delle nostre passeggiate la pineta terminava ed il pendio della montagna si faceva più tenue e la vegetazione meno fitta. C’erano degli acquitrini e ricordo che mi inzuppai ben bene gli scarponi. Con tre lampade ad acetilene, giunti in una zona erbosa ed aperta, accandemmo i segnali convenuti: un triangolo con l’apice rivolto nella direzione del lancio. Stemmo in attesa due o tre ore fino quasi all’alba. Ma di aerei non ne vennero, con nostra delusione, e rientrammo alla chiesina dove dormii profondamente in terra sulla paglia. Imparai quella prima notte a camminare nel buio con cautela, senza far rumore, senza parlare, facendosi riconoscere dalle nostre sentinelle con un tenue fischio a raganella, a intervalli brevi. A quel fischio corrispondeva quello della sentinella che dava via libera. Ricordo che seguivo  quello che facevano gli altri, più esperti (in pratica di solo qualche giorno più anziani di me nella formazione) e soprattutto pendevo dalle labbra del Capitano Pietro, una specie di semidio, sempre attente, serio, corrucciato, di poche parole, ma perentorie e con quell’accento meridionale che subito mi aveva colpito quando qualche giorno primo lo avevo incontrato alle Saldine.

 

Imparai quella prima notte a camminare nel buio con cautela, senza far rumore, senza parlare, facendosi riconoscere dalle nostre sentinelle con un tenue fischio a raganella, a intervalli brevi.

L'1 ed il 2 di luglio del '44 furono due giorni densissimi di fatti, scolpiti nella mia memoria indelebilmente. Un susseguirsi impressionante di avvenimenti che su di me, allora diciassettenne, provocarono meraviglia, sconforto, entusiasmo, delusione, stanchezza, sonno, allegria, direi tutto ciò che si poteva provare. Mentre ero in riposo in una delle stanze sotto la chiesina giunse concitato Celestino "Croccanti" puntando la rivoltella alla schiena di un milite fascista della G.N.R, con bustina a visiere nera, come quella che portavamo la “Brigate Nere”, famose formazioni fasciste molto spietate, create per la lotta ai partigiani. Interrogato il milite, esternamente spaventano, dice di provenire dalla guarnigione fascista di Montese e di essere diretto a casa sua vicino a Castelluccio. Viene rinchiuso in uno stanzino e guardato a vista da una nostra sentinella armata. Il Capitano Pietro, dopo un consulto con Gigino, decise che il milite deve essere fucilato. Io sento i commenti dei compagni, tutti sgomenti di eseguire un ordine del genere nei confronti di uno che appare un buon contadino delle nostre montagne. Anch’io sono sorpreso e amareggiato di una simile decisione. Intanto però la esecuzione è sospesa. Viene la sera ed il buio: io sono di sentinella giù verso la stradina che conduce alle case di Ronchidose. Sento un leggero scalpiccio poi il fischio convenzionale. C’è Gigi Biagiolo, un ed carabiniere che poi sposò la Iolanda, figli di Pellegrino di Ca’ di Bagnani, ed un altro di forse quarant’anni, che si presenta come “Pakard”: credo fosse un esponente clandestino proveniente da Bologna, forse del Partito d’Azione che era il sostenitore della nostra formazione. “Pakard” ca da Pietro. Io continuo la mia guardia con le orecchie tese ad ogni scuotere di foglie, ad ogni più piccolo rumore nella notte buia. A mezzanotte smonto dal mio turno. Alla chiesina c’è un gran parlottare del Capitano con Gigino e con i nuovi venuti: poi all’improvviso l’ordine di dare la sveglia a prepararsi in fretta per il trasferimento. Forse l’ordine fu portato da “Pakard”, che mai più vidi né seppi chi fosse. Probabilmente la posizione della chiesina era troppo pericolosa e c’era da temere un attacco dei fascisti o dei tedeschi.  “Pakard” prima di scomparire convinse Pietro a non fucilare il fascista, ma a portarlo con noi. Il suo nome era Primo Geranielli: una faccia da povero diavolo, spaventato come un passerotto smarrito, il contrario del guerriero. Si rivelerà in seguito un fedelissimo, pronto a tutti i servizi ed è ancor oggi memore e grato di aver avuto salva la vita.