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Autore

Leda Cossu

Anno

2012

Luogo

Nuoro/provincia

Tempo di lettura

13 minuti

Tracce femminili di lavoro e di vita

Nella primavera del '65, non avevo ancora 17 anni, ero operaia in fabbrica, come mia madre.

Il maglificio Nigi di Mogliano, la scoperta della catena di montaggio. Andai a lavorare alla Nigi, produzione di maglieria intima, dopo un anno in pasticceria e un altro come impiegata in un Ufficio per ricambi auto del papà di Graziella. Da due anni battevo a macchina su una vecchia Olivetti manuale di mia sorella Giancarla, che nonostante il Manicomio ci riprovava ad affrancarsi, iniziò lei con la Gifra, il gruppo yoga, le mostre di pittura. Cercava lavoro sempre, era coraggiosa, solare, lavorò anche all'Enel, ma ebbe i primi segni di demielinizzazione midollare, postumo alle cure invasive psichiatriche. Le gambe non la sorreggevano, cadeva spesso. Perse il lavoro, dovevo guadagnare di più. Mi incoraggiò Rosanna Franzin, la mia amica della Gifra, suo papà erborista curava mia sorella,  lavorava alla Nigi all'inscatolamento. La fabbrica si era trasferita nell'arretrato clima sindacale Trevigiano da Mestre, da via Montenero dove ora c'è la Coop.
A Mestre le ragazze erano sindacalizzate, avevano eletto per quattro volte una Commissione Interna di Fabbrica che per quattro volte fu licenziata. Quelle salvate da Mestre svolgevano mansioni fini, specializzate, erano consapevoli dei loro diritti, ma avevano paura di perdere il posto di lavoro.
Nel Trevigiano la "manodopera femminile", così ci chiamavano, viveva all'ombra del Campanile, sarebbe stata anche lì l'ultima stagione, il Campanile sarebbe diventato un luogo da cui iniziare un periodo di conquista di diritti minimi.
Paola  Gorla e le Acli  Il risveglio avvenne grazie a noi ragazze e fu sostenuto dalle Acli dei primi Gruppi di Fabbrica di Paola Gorla, dirigente Acli, una vita da operaia arrivata nel veneziano da Saronno. Entrò nel Direttivo Nazionale delle Acli. Avviò i Gruppi di Formazione degli operai delle fabbriche, dai Calzaturieri del Brenta al Terraglio.
Nella primavera del '65, non avevo ancora 17 anni, ero operaia in fabbrica, come mia madre.
La fabbrica significa comunità, amicizia, condivisione ci sono anche i crumiri, quelli che per un piccolo privilegio personale, un minuscolo aumento di stipendio ... si vendono, si mettono al di fuori e contro la comunità mettendo in discussione valori individuali e collettivi. Questa esperienza l'avrei vissuta più avanti, a Marghera, con alcuni "quadri" dell'Acsa, poi denominata Chatillon nel '66 e poi Montefibre nel '72 ... fra ragazze era diverso, Rosanna Franzin, la dolce Olga Vallotto, Nadia Boato del mio Rione, Graziella Tavcar, sveglia, simpaticissima, organizzatrice di lotte e di scherzi, organizza ancora oggi le cene della Nigi per 1'8 marzo, così grazie a lei, alla sua puntigliosa e fedele memoria, vivida nel racconto e tutta registrata, ne reincontro alcune ogni tanto, dopo oltre 45 anni.  Poi Cristina ... della prima Commissione Interna, Lavinia Carpenedo, mangiavamo insieme a mensa, quando dovetti cambiare lavoro, non sapevo più come convincerla di quanto fosse brava, capace e potesse fare lei la Commissione Interna. Marzia Trento e tante altre.
Bisognerebbe sedersi e incontrarsi, raccogliere  una storia ancora vivida, documentata dalle cronache e dalle singole memorie. L'anno scorso una di loro portò da Graziella un CD delle lotte, fatto in casa, manifestazioni, foto, feste. Graziella da sola è una miniera.

Ho capito subito questa svendita della salute che è la produttività individuale. Da allora quando sento parlare di catena di montaggio mi vengono le lacrime agli occhi, così per il cottimo ... una conquista-non conquista, un autosfruttamento.

C'era una ragazza di San Giorgio di Nogaro, mi sembra si chiamasse Nives. Aveva una speciale identità, lei era una "profuga giuliana". Affiorava ogni tanto nel nostro parlare la perdita di qualcosa che conoscevo solo vagamente. Un dolore unico, solitario, forse perché non conosciuto, compreso. Non assomigliava alla mia perdita del paesaggio, dei cibi, delle donne della mia infanzia in Sardegna. Era come una perdita totale, io ero stata strappata, ma potevo tornare, lei era come se avesse perso tutto e ritrovasse con noi compagne il senso di un'appartenenza. Non era solo questione di pane, ma di crescita femminile, umana, un'identità sociale e culturale insieme. Ci specchiavamo l'una con l'altra e come compagne di lavoro. Non eravamo sole.
Alla Nigi eravamo in 400 ragazze in open space. Vetrate trasparenti ci dividevano le une dalle altre, con un'occhiata ci controllavano dal taglio all'inscatolamento. Il mio reparto, il taglia-cuci, era in mezzo. La direttrice, la signorina Maria, era piccolina con gli occhiali, aveva il cocòn con le forcine in testa e un grembiule nero.
In ogni fabbrica manifatturiera c'era una direttrice "Belfagor", anche alla Minimoda della Coin confezioni sul Terraglio. Questo nome l'avevano dato loro alla loro direttrice. Un belfagor­ fantasma, come nel film Belfagor, il fantasma del museo, che spuntava da dietro le colonne nei momenti più impensati. Controllava se parlavi, con chi, se ti fermavi, quanto stavi al bagno ...Alla porta del bagno mancavano alla base 15 cm, dall'esterno si vedevano i piedi ... un controllo, come al manicomio dov'era stata ricoverata mia sorella Giancarla, un'idrocefalia lieve manifestatasi con forti mal di testa alla maturazione del sistema osseo, in adolescenza . Manicomio a 15 anni, ci finivi così all'improvviso, dal medico di famiglia allo psichiatra di via Cappuccina, chiamarono un'auto e la ricoverarono. Decenni dopo diedi un nome a questa violenza: TSO, trattamento sanitario obbligatorio. L'auto partì con mia sorella impaurita che non capiva cosa stesse succedendo, mia madre svenne.
La ragazza  del taglia-cuci che lavora al primo posto della catena di montaggio dà il ritmo al lavoro.
E' una veloce, si sente brava, o ha paura, o viene messa lìper farla sentire "sotto controllo". Io ci finii per controllo (avevo organizzato l'uscita delle apprendiste all'orario giusto). Se si alza la prima della fila si rallenta la catena, devono sostituirla. Le capette assistono le linee, spostano i manufatti. Per andare al bagno devi chiedere. I bagni sono in testa al reparto, visibili da tutto il reparto. La porta del bagno non arriva a terra, come in Manicomio. Sono visibili i piedi fino alle caviglie, vedi le compagne muoversi, se ti cade qualcosa a terra....si vede. Ambienti di lavoro dove lavoro e controllo della persona era tutt'uno, programmato.
La catena di montaggio, giorno dopo giorno, diventa un tormento. Ogni pensiero si  spezza, vola via, è ritmato dalla macchina. Mi salvai cantando in silenzio, usando la preghiera come un mantra, addolcendo i pensieri, avevo una Musina cui attingere.
Ho capito subito questa svendita della salute che è la produttività individuale. Da allora quando sento parlare di catena di montaggio mi vengono le lacrime agli occhi, così per il cottimo ... una conquista-non conquista, un autosfruttamento.
Per non parlare poi, come oggi, di perdita del contratto collettivo di lavoro e dell'art. 18 cui riponemmo tante lotte e speranze.
Qualcuna di noi si è spezzata, è andata fuori di testa. Venivamo da paesi diversi, con autobus differenti e non lo sapevi subito. La compagna scompariva e basta.
A me si spezzava la parola anche per il resto della giornata, la recuperavo con fatica. Mi aiutava la lettura e le relazioni famigliari, sociali, la scuola, il pensare a mia madre, al suo sorriso e il suo coraggio. In certi periodi, nel pranzo pronto mi metteva, dentro al tovagliolo, un bigliettino, un disegno, una notizia ritagliata, una barzelletta. Feci la stessa cosa quando mio figlio andò a scuola e volli sostenerlo in alcuni momenti.

 

Oggi i lavoratori sono umiliati, precari, affamati, ma il clima sociale non  è come allora. Abbiamo imparato che si può anche arretrare, anche quando sembra di avanzare e la democrazia, la costruzione di un tessuto sociale è compito di tutti, oggi che le famiglie sono piccole e fanno i giocolieri sospesi fra il sostegno dell'welfare famigliare, il reddito ridotto, i figli che non lavorano, la dismissione dei Non Autosufficienti come se fossero reparti obsoleti.

Trasferita da Dolo a Chirignago non avevo poi dato gli esami di 3" media e mi iscrissi a I 7 anni alla media serale in Corso del Popolo.
I  Professori erano motivati, il prof. di Italiano, Schioppa, faceva da collante, ci faceva discutere. Uno dei primi compiti in classe fu sull'attualità e parlai di Franca Viola, la diciasettenne siciliana che per prima non volle sposare il suo stupratore con un matrimonio riparatore, lo denunciò e sostenne il processo.
Ricordo c'era un fascista in classe, disegnava tutto il tempo fasci littori, era conosciuto in città, era di quelli duri.
Con la memoria della guerra, delle rappresaglie, di mio nonno comunista che lo rincorrevano per la strada, delle botte, della violenza di un'epoca non ancora chiusa.. mi faceva angoscia, ma non volevo avere paura, guardavo in lui il ragazzo, il compagno di classe. Schioppa stemperava le tensioni che però c'erano e si scioglievano in lunghi confronti. Così oltre alla fabbrica, alla casa, all'impegno in fabbrica e sociale...mi innamorai del professore. Mi rese più facile studiare. Non era faticoso vivere, ma la catena sì era faticosa ed anche il clima autoritario che si respirava ovunque, dentro e fuori la fabbrica. Oggi i lavoratori sono umiliati, precari, affamati, ma il clima sociale non  è come allora. Abbiamo imparato che si può anche arretrare, anche quando sembra di avanzare e la democrazia, la costruzione di un tessuto sociale è compito di tutti, oggi che le famiglie sono piccole e fanno i giocolieri sospesi fra il sostegno dell'welfare famigliare, il reddito ridotto, i figli che non lavorano, la dismissione dei Non Autosufficienti come se fossero reparti obsoleti. La civiltà si sostiene solo con un forte senso di comunità, di cittadinanza.
Le lotte alla Nigi. Era il 1 965. Il Direttore ci chiamò in Sala Mensa, quel giorno sarebbe venuto l'Ispettorato del lavoro e ci spiegò cosa avremmo dovuto rispondere se ci avesse intervistato. Fu un errore, ci mise praticamente a conoscenza dei nostri diritti.
Era tutto un parlare sottovoce fra noi. Le ragazze più grandi e quelle sopravvissute ai licenziamenti mestrini erano preoccupate, parlavano fra di loro e mi avvicinarono .. Leda "tu che sai parlare" devi parlare all'Ispettore, alla fine dell'ispezione, quando esce dalla fabbrica. Questa è un'occasione buona.
Ma cosa gli dico... qualcuna di voi sa cosa potremmo dirgli? Mica lo fermerò da sola.
In pausa pranzo andammo in bicicletta a Mogliano, singolarmente per non andar nell'occhio. Incontrammo il fratello di una compagna, Adriana, fu così che scoprii le Acli, attive a Mogliano. Cosa diciamo all'ispettore? Quali sono i nostri diritti? Ci spiegò che le apprendiste devono avere un orario inferiore delle operaie, non devono fare gli straordinari, devono poter frequentare i Corsi Complementari (una formazione per i giovani operai). Soprattutto dovete stare unite, ci disse, parlate fra di voi, formate un gruppo, faccio in modo che vi ospitino in Parrocchia a Mogliano, c'è don Gianni Fazzini che può darvi una mano. E domani, dopodomani ... uscite all'ora giusta, quella delle apprendiste.
Alle ragazze promisi che avrei parlato all'Ispettore solo se fossimo rimaste tutte insieme.. se qualcuna se ne va, dissi, me ne vado anch'io. Bloccammo l'auto dell'Ispettore all'uscita e gli chiedemmo: Scusi Ispettore, cosa le hanno detto i nostri padroni? Gliel'hanno hanno detto che le apprendiste lavorano più ore delle operaie? che non facciamo i corsi complementari? che ci costringono alle pulizie oltre l'orario di lavoro? L'Ispettore girò l'auto e tornò sui suoi passi. I nostri padroni ebbero una multa salata. Iniziò la caccia alle colpevoli. Fui tenuta d'occhio, io, le mestrine ... tutte. Non c'era un bel clima, da me poi non se l'aspettavano, andavo in Chiesa la domenica, non dicevo parolacce, promuovevo la lettura di libri. Prestavo libri a destra e a manca, anche di formazione sessuale, alcune di noi non sapevamo neanche quanti orifizi avessimo. Fu una gioia quando avemmo la prima vetrina con i libri in fabbrica. Ilgiorno dopo all'ora giusta ... fu una marea umana di apprendiste ad uscire. Eravamo d'accordo. Dall'inscatolamento iniziò Rosanna, la mia amica della Gioventù Francescana, oggi infermiera e ancora amica, cominciavamo a conquistare una condizione operaia più umana. La marea di ragazze avanzava e man mano che le macchine si spegnevano fra lo sbracciare allarmato della Signorina Maria, la Direttrice e l'espressione stupita delle capette . .. le operaie ci sostenevano mantenendo la staticità del viso, continuando a lavorare come se nulla fosse, incoraggiandoci sottecchi, anche se avevano paura. Fu così anche i giorni successivi. Durante la pausa pranzo qualcuna di noi scompariva in bicicletta a Mogliano per scambiare consigli col fratello della nostra compagna. A volte anch'io. Ma dove andavo io in bicicletta .. che arrivavo da Mestre in autobus? Leggevo la domanda nei occhi delle cape, della signorina Maria, la direttrice. Ottenemmo il giusto orario di lavoro per le apprendiste, i corsi complementari ... Iniziò la stagione dei Gruppi di Fabbrica  delle Acli, delle lotte operaie del Trevigiano, fummo le prime, e anche le prime delle piccole fabbriche del Veneziano. Paola Gorla faceva da collante. Quando arrivava a Mestre passava per casa nostra.