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Autore

Bruno Travaglini

Anno

1994

Luogo

Siena/provincia; Grosseto/provincia

Tempo di lettura

12 minuti

Un luogo, un tempo

Ognuna di queste categorie aveva il proprio territorio e le loro abitazioni avevano naturalmente un diverso stile costruttivo, mentre gli edifici pubblici, come il dopolavoro e la chiesa, erano in perfetto stile littorio, come dettato dall'architettura politica del tempo.

Il Villaggio era stato costruito sulla rotondità di un poggio, circondato su tre lati da alte colline, fitte di boschi di cerri e querce, ma dove non mancavano le varietà di frassino, i carpini, i lecci, i ginepri, gli olmi e tutte le altre specie mediterranee. Più in alto, dove le colline mutavano in montagne, crescevano i castagni. Ovunque si volgeva lo sguardo si vedevano boschi. Solo su un lato, dove il colle digradava su una pianura circolare, i campi rompevano il verde cupo della macchia. Lungo il margine Ovest della pianura correva la strada statale proveniente dal mare che si inoltrava sulle montagne della Val di Cornia e sulla quale si innestava la strada che portava al nostro villaggio. Due torrenti provenienti da due diversi bacini imbriferi, coperti completamente da piante di nocciolo, delimitavano da Est e da Ovest la pianura, scorrendo nel senso parallelo alla strada. Chi aveva ideato il villaggio lo aveva fatto tenendo conto delle mansioni di chi avrebbe lavorato nella miniera: minatori, tecnici, impiegati e il "direttore". Ognuna di queste categorie aveva il proprio territorio e le loro abitazioni avevano naturalmente un diverso stile costruttivo, mentre gli edifici pubblici, come il dopolavoro e la chiesa, erano in perfetto stile littorio, come dettato dall'architettura politica del tempo. La scuola elementare, un modesto edificio ad un solo piano era il primo che si incontrava salendo dall'unica strada che conduceva al villaggio. Era stata costruita su una piccola radura, con il cortile sul davanti delimitato da un muretto. Nel cortile, dove sul margine sinistro si alzava il pennone dell'alzabandiera, gli alunni facevano ginnastica e si tenevano le cerimonie scolastiche del sabato fascista. La strada proseguiva in salita verso la sommità del poggio. Affacciati alla strada, sulla sinistra, tre edifici di due piani con il giardinetto sul davanti, per le famiglie dei capi operai o "sorveglianti", come venivano chiamati. Sul finire della salita, sempre dallo stesso lato, la costruzione bassa dello spaccio aziendale con annesso forno per il pane. Di fronte allo spaccio, davanti ad un ampio piazzale, con in mezzo il sempre presente pennone per l'alzabandiera, il Dopolavoro, edificio destinato alla ricreazione dei minatori con il bar, il biliardo e il piccolo teatro-cinematografo. La strada, poi, biforcando, andava da un lato verso la miniera e dall'altro verso la parte più grande del villaggio, quella riservata ai minatori ed alle loro famiglie. Questa era stata progettata e costruita facendo perno su una piazza, a forma rettangolare, ombreggiata da piante di acacie e con gli edifici a due piani, color ocra, disposti ai quattro lati. Per ultimi erano stati costruiti, con -la nuova tecnica del cemento armato, due grandi palazzi a quattro piani, per quaranta famiglie ciascuno, dipinti di bianco, disposti parallelamente e uniti da un piccolo parco comune. In uno di questi palazzoni si trasferì la mia famiglia, dopo aver abitato un edificio prospicente alla piazza, perchè avevano appartamenti più grandi e luminosi, con la cucina economica, i pavimenti di mattonelle colorate, tapparelle e persiane alle finestre, balconi e terrazze. Lungo il tratto di strada che andava verso la miniera, in alcune villette con giardino, abitavano le famiglie dei tecnici e dei dirigenti della miniera, mentre il Direttore occupava la villa con parco che era la costruzione più pregevole del villaggio. I primi anni li vivemmo, quindi, tra cantieri, impalcature, capimastri, carpentieri, muratori, manovali; gente venuta a guadagnarsi la vita in quel luogo, lontana dalle proprie famiglie che viveva accampata in squallidi "camerotti", lunghi e tristi stanzoni con il pavimento di cemento e due file di brande appoggiate alle pareti, intramezzate da stese di panni -per asciugare un povero bucato di calzini, mutande e camicie. Successivamente, nei camerotti, vi abitarono i minatori scapoli o che non avevano ancora trasferito le loro famiglie. Quei primi anni li vivemmo aspettando l'arrivo delle nuove famiglie, spesso cariche di figli, che andavano a stabilirsi nelle case mano a mano che venivano costruite. Ogni arrivo era un avvenimento. Andavamo ad aiutarli a scaricare le masserizie cercando di superare la loro diffidenza iniziale, offrendo loro amicizia: i grandi con i grandi, i ragazzi con i ragazzi.

[...]

Speriamo che quando nascerà il bambino la guerra sia passata e tutto sia finito per il meglio.

Una sera di fine d'anno, all'ora della cena, prima di scodellare la minestra, la mamma con voce incerta ed arrossendo fino alla radice dei capelli, ci disse: -  Devo dirvi una cosa importante, presto avrete un altro fratello o sorella - poi, dopo un attimo, aggiunse - Se tutto andrà bene nascerà ai primi di Giugno. La guardai esterrefatto. - Un altro fratello? Questa si che è bella - esclamai. Adriana era arrossita a sua volta mentre guardava la pancia della mamma. Beppino che non aveva afferrato bene ci osservava incuriosito, mentre il babbo sorridente, dopo averci dato il tempo di riprenderci dalla sorpresa, chiese: - Siete contenti? Ci guardammo con Adriana, poi, visto che lei non parlava dissi: - Contenti? Forse si, non sono sicuro. - A quel punto Adriana uscì dal suo silenzio imbarazzato - Ma sì...si che siamo contenti, ti aiuterò io mamma. Guardai la mamma, era pallida ora che il rossore le era scomparso dalle guance, mentre per superare il disagio che l'aveva colta nel darci la notizia si dava da fare a scodellare la minestra. Sentii forté il bisogno di abbracciarla, ma, come al solito non lo feci, abituati come eravamo a reprimere i nostri slanci di affetto, però le sorrisi dicendole:

- Sì mamma, sono contento anch'io. Ti aiuteremo tutti. -  Allora lei, rinfrancata: - Speriamo che quando nascerà il bambino la guerra sia passata e tutto sia finito per il meglio.

- Speriamo, speriamo,- aggiungemmo in coro.

Il resto della cena si svolse nell'eccitazione allegra di noi figli, mentre mamma era tranquilla e lieta per aver superato il momento di quell'annuncio che a lei, ora che aveva trentanove anni e tre figli doveva aver dato tanto pensiero. I due eventi che attendevamo: il passaggio del fronte e la nascita del bambino, ci fecero passare quell'inverno più velocemente del solito, anche se i pericoli si erano moltiplicati. I cacciabombardieri inglesi ed americani erano sempre sopra le strade alla ricerca di obbiettivi da colpire. Per questo i tedeschi muovevano i loro convogli militari solo la notte che era sempre piena del rombo dei motori e dello sferragliare dei carri armati. Con il babbo andavamo spesso in casa del Santoni ad ascoltare in gran segreto "Radio Londra", per capire come stavano realmente le cose e per avere quelle notizie che i nostri "bollettini di guerra" non diffondevano, mentre Alide, la moglie, stava fuori della porta a sorvegliare. Confesso che la prima volta che senti quel "Tun,Tun,Tun,Tun"  che precedeva le parole: - Qui Radio Londra - mi fece un po' rabbrividire, forse era il fascino del proibito o forse era proprio quel segnale così perentorio e misterioso, tanto diverso dal nostro, forse era qualche altra cosa; comunque, quel segnale mi colpiva sempre. La direzione della miniera, in previsione di un possibile protrarsi del fronte nelle nostre zone, come era avvenuto a Cassino, distribui alle famiglie le razioni di viveri per due mesi. La mamma, previdente come al solito, prelevava da queste scorte solo la razione giornaliera, perciò, quanto a fame, niente era cambiato e faceva un certo effetto veder crescere la pancia alla mamma mentre il resto del suo corpo rimaneva così magro. Il babbo si sforzava di darle qualcosa in più mettendole nel piatto cucchiai della sua minestra e pezzetti della sua carne mentre lei protestava. Nella conigliera ormai era rimasto solo il maschio e la femmina, il resto era finito in padella per sostenere la gravidanza. Arrivò il giorno delle doglie: era il quattro di giugno. La levatrice spedì noi figli dai Rosati, una famiglia che abitava in piazza, con l'obbligo di non tornare a casa se non chiamati. Dopo aver aspettato tanto ora eravamo preccupati, Adriana più di me, Beppino invece aspettava solo di vedere questo fratellino, era sicuro che sotto il cavolo, il babbo ci avrebbe trovato un maschietto. A sera ci vennero a chiamare. Era nato un maschio. Ci precipitammo a casa, naturalmente io arrivai per primo. In cucina trovai le vicine e la levatrice che, appena mi vide, mi bloccò dicendomi - Aspetta ancora un minuto poi potrai vedere il tuo fratellino - ed entrò con acqua ed asciugamani nella camera della mamma. Io rimasi un po' male ma non protestai: quella donna che faceva nascere i bambini, mi metteva in soggezione. Frattanto erano arrivati Adriana e Beppino e anche loro dovettero fare anticamera. Poi la porta si aprì ed il babbo, con in viso dipinta la gioia, ci fece entrare mentre usciva la levatrice. La mamma era a letto e ci sorrideva, al suo fianco, fra i due cuscini del lettone spuntava una testina ricoperta di capelli scuri. - Guardate come è bello - disse. Io lo esaminai attentamente, non mi sembrava tanto bello, aveva la pelle arrossata, e faceva una quantità di smorfie. Mi colpirono soprattutto le mani, con le dita poco più grosse di un fiammifero e le unghie perfettamente disegnate del colore della madreperla. Beppino dopo aver guardato in silenzio quell'esserino, andò subito al sodo ed indicandolo con il dito disse - Chiamiamolo Luciano. - Ci guardammo l'un l'altro annuendo con la testa, poi il babbo confermò - Chiamiamolo Luciano. I primi giorni che seguirono la nascita del bambino furono giorni felici per la famiglia.Tutti ci attardavamo in casa attorno al piccolino a spiarne le mosse, mentre fasce e panni venivano continuamente lavati ed asciugati. Ci eravamo quasi dimenticati del resto del mondo che continuava ad essere travolto nella tragica liturgia della guerra. In quei giorni la quinta armata americana aveva liberato Roma e continuava ad avvicinarsi a noi, incalzando i tedeschi. Intanto che aspettavamo con ansia i giorni della liberazione, Adriana ci raccontò uno strano sogno che l'aveva profondamente turbata. Per la verità lei sosteneva che quello non era stato un sogno ma una visione, perché era sicura che in quel momento fosse ben sveglia, ma io che sapevo come a mia sorella bastasse chiudere gli occhi per addormentarsi, ero quasi certo che si trattava di un sogno. Adriana raccontò come, una volta spenta la luce e nell'attesa del sonno, improvvisamente si trovasse dentro ad una grande chiesa immersa in una penombra rossastra originata da fioche lame di luce che, entrando da piccole vetrate colorate, andavano a illuminare un catafalco coperto da un drappo nero posto ai piedi dell'altare. Poi, dal fondo buio della chiesa vedeva venire avanti una moltitudine di donne che, vestite e velate a lutto con la testa reclinata sul petto, circondavano il feretro cantando salmi. A quel punto Adriana, impaurita, accendeva la luce e si ritrovava a letto con il batticuore. Il sogno o che altro, si era ripetuto per tre notti di seguito e lei, sempre più preoccupata, l'aveva raccontato confidandoci la sua inquietudine. La mamma, seppur turbata, cercò di tranquillizzarla dicendole che certamente aveva sognato e che si fanno sogni belli e sogni brutti, ai quali, però, non va data eccessiva importanza. Il sogno non si ripeté più e Adriana, piano piano, nei giorni che seguirono riuscì a calmare la sua ansia.