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Autore

Bruno Travaglini

Anno

1994

Luogo

Siena/provincia; Grosseto/provincia

Tempo di lettura

6 minuti

Un luogo, un tempo

Non era passata mezz'ora, quando sulla strada apparve un gruppo di giovani sconosciuti che a prima vista potevano sembrare dei militari.

Il nove di giugno faceva caldo. Dopo il pranzo ero rimasto in casa fino al tardo pomeriggio, poi mi decisi ad uscire avviandomi verso la piazza. Non trovai amici, allora mi diressi ai "pallai" del dopolavoro, con l'intenzione di assistere ad una partita a bocce. Le bocce e le carte erano gli unici svaghi dei minatori. Con le bocce c'era chi si era fatta una fama: quello era bravo ad accostare, l'altro era bravo a bocciare, l'altro ancora era il campione che tutti volevano per compagno. Nei pomeriggi d'estate, le partite si facevano nel campo di bocce esposto a Nord; l'edificio del dopolavoro lo riparava dal sole, quindi si poteva giocare standosene al fresco e quella sera calda e tranquilla, la partita procedeva accanita come al solito. Mi sedetti sulla scarpatina che dalla strada declinava verso il "pallaio" e cercai di interessarmi al gioco, visto che gli amici per fare altro non c'erano. Non era passata mezz'ora, quando sulla strada apparve un gruppo di giovani sconosciuti che a prima vista potevano sembrare dei militari. Venivano avanti quasi di corsa e, giunti alla nostra altezza, il gruppo si aprì a ventaglio impugnando d'improvviso le armi che fino ad allora avevano tenute nascoste e puntò decisamente verso la caserma dei carabinieri che si trovava in un edificio civile di fronte al rifugio antiaereo, a pochi metri dal campo di bocce. I giocatori, colti dallo stupore, erano rimasti bloccati negli atteggiamenti in cui si trovavano ed ora assistevano alla scena, fermi e muti come statue. Intanto l'azione si stava svolgendo fulminea. Alcuni dei sopraggiunti si erano buttati a terra puntando una mitragliatrice contro la caserma, mentre gli altri corsero verso l'edificio e, attraverso le finestre basse, aperte in quella calda serata di giugno, vi fecero irruzione.

- Sono partigiani - disse uno dei giocatori uscendo da quei silenzio attonito, rotto fino ad allora dal rumore dell'azione e dagli ordini secchi pronunciati dal comandante del gruppo. – Sono quelli della macchia - fece eco un altro.

Gli abitanti della Niccioleta, in maggioranza, erano sempre stati contrari al fascismo. Erano emigrati dai loro paesi di origine perché quello era il solo posto dove li lasciassero lavorare a causa delle loro idee.

Da un momento all'altro poteva scatenarsi l'inferno, eppure nessuno si muoveva, nessuno fuggiva, nessuno pensò a ripararsi; eravamo come paralizzati in attesa che accadesse l'inevitabile. Trascorse qualche secondo o qualche minuto, non so dirlo. Parole concitate giungevano dalle finestre aperte, poi, i carabinieri uscirono dalla caserma con le mani alzate, seguiti dai partigiani. I militari per la sorpresa o per una scelta precisa, si erano lasciati disarmare e quello che poteva essere un fatto cruento e drammatico ebbe la sua conclusione nel bottino. che i partigiani fecero delle armi, che furono trasportate velocemente al di là del poggio da dove, pochi minuti prima, erano sbucati. Anche i giocatori, superata la sorpresa e la paura, si avvicinarono ai partigiani fraternizzando festosamente. Io che avevo assistito a quella scena, scandita da secondi eterni, ero rimasto a guardare come se avessi visto gli extraterrestri scendere dall'astronave proveniente dal regno di Ming. Ora che potevo avvicinarmi, andai a toccare con la mano quei ragazzi e le loro armi, rendendomi conto che era gente come noi, -che veniva dalla macchia e non dal regno di Ming e che erano felici di essere vivi e che tutto fosse finito senza sparare un colpo. Intanto la notizia dell'arrivo dei partigiani si era sparsa nel paese e tutti si erano radunati in piazza a festeggiare i partigiani, rifocillandoli con bicchieri di vino. Gli abitanti della Niccioleta, in maggioranza, erano sempre stati contrari al fascismo. Erano emigrati dai loro paesi di origine perché quello era il solo posto dove li lasciassero lavorare a causa delle loro idee. La guerra e le privazioni poi, avevano fatto il resto. Era naturale, perciò, che la popolazione avesse accolto, con grande simpatia, i partigiani. Le abitazioni dei quattro o cinque fascisti più facinorosi furono perquisite alla ricerca di armi e furono sequestrate divise e simboli del regime che furono bruciati sulla piazza. Poi, così come erano venuti, i partigiani ritornarono alla macchia e tutto si concluse abbastanza tranquillamente senza che fosse volato uno schiaffo. Nella notte, alcuni fascisti se ne andarono dal paese con le loro famiglie e la cosa poteva essere interpretata in vari modi. Ma i più pensarono che si fossero trasferiti dove nessuno li conosceva per ricominciare una nuova vita. Il "raid" partigiano, la fuga dei fascisti e l'euforia che ne scaturì illusero la gente che la liberazione fosse imminente e che era arrivato il momento, per i minatori, di assumersi la responsabilità di tutelare gli impianti della miniera da eventuali azioni di sabotaggio e distruzione da parte dei fascisti. Per questo fu deciso di istituire una guardia armata per sorvegliare le varie zone della miniera e di issare sul pennone dell'alzabandiera una bandiera bianca per segnalare agli aerei alleati che quel villaggio era già dalla loro parte. Il babbo, da sempre antifascista, non era d'accordo con i suoi compagni su questa iniziativa che giudicava imprudente e pericolosa poiché immaginava che i fascisti, fuggiti pieni 'cli rabbia e di odio verso i loro paesani che avevano accolto festosamente i partigiani, cercassero vendetta servendosi dei tedeschi ai quali potevano aver raccontato menzogne. Questo disse inascoltato ai suoi compagni che, per suo espresso desiderio, lo esclusero dai turni di guardia. Io gli chiesi perché non andasse più d'accordo con i suoi compagni. Lui, rattristato, guardandomi negli occhi, mi spiegò i suoi timori, ma io non lo capii fino in fondo ed in me rimase un pizzico di delusione.