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Autore

Nicla Borri

Anno

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Luogo

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Tempo di lettura

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Alcuni sprazzi di vita passata

Ero nata in un bar, in via Roma, nel'32, il babbo era pasticcere, poi c'è stata la guerra ... io ero una bimba, sono sfollata proprio quando avevo finita la quinta e fino ad allora avevo avuto una bella vita.

Voglio iniziare dal 1940-41 per raccontare qualcosa della mia vita: eravamo in periodo fascista e cominciava la guerra.
La guerra vista dai bambini è strana ... non ti rendi conto cos'è, allora non c'era la televisione che ti faceva vedere, c'era solo la radio, e sembrava che si vincesse.
Poi è venuta la realtà, sono apparsi gli sfollati, i bombardamenti, i tedeschi con il loro passo, con i loro rastrellamenti, la città disfatta, il mercato nero, non si trovava più niente. La fame, la paura è quello che io ricordo.
Ero nata in un bar, in via Roma, nel'32, il babbo era pasticcere, poi c'è stata la guerra ... io ero una bimba, sono sfollata proprio quando avevo finita la quinta e fino ad allora avevo avuto una bella vita.
Eravamo una famiglia di sette persone: mamma, babbo, quattro figli (tre maschi e io femmina) e la nonna materna, la mia fantastica nonna, che ci ha seguito fino alla sua morte.
Il babbo era molto più grande della mamma, era vedovo con un figlio quando ha sposato la mamma e da lei ha avuto altri tre figli. Adoravo il babbo, lui mi diceva sempre che io sarei stata il bastone della sua vecchiaia, ma non gli sono servita, è morto prima. Ha voluto un trasporto civile, pensate nel '51 un trasporto pieno di bandiere rosse, senza prete, con il Cristo del carro funebre coperto con un panno nero perché il babbo si è fatto cremare, ed allora la Chiesa non ammetteva ciò.
Il babbo era un bravissimo pasticcere, avevamo il bar in via Roma, faceva delle torte meravigliose alle famiglie bene di Pistoia, era una vita diversa allora, e pochi potevano permettersi di ordinare dolci.
La mamma era una bella donna, si chiamava Iris, non era molto affettuosa, ma capivamo che ci voleva bene. Poi la guerra deve averla sconvolta e non fu più per noi una mamma, ma una figlia da guardare. Era paurosa di tutto, appena faceva buio chiudeva tutte le imposte, non sarebbe mai stata una notte da sola.
È la nonna che ci ha accudito, curato, portato a scuola, perdonato e rimpiattato le nostre marachelle. Era molto brava in cucina, sapeva fare il sugo "scappato", come diceva lei, senza carne, ma buonissimo, i sedani ripieni, la trippa, la rigaglia, il carcerato, le polpette e altro ancora. Metteva a tavola giorno e sera sei persone come se niente fosse, inventandosi sempre qualcosa, e non ho mai sentito un suo lamento.
Portava capelli lunghi appuntati, era uno spettacolo vederla pettinarsi: lisciava i suoi capelli lunghi, li spazzolava e poi non so come li faceva girare attorno alle sue mani, costruendosi un bel crocchio dietro, poi scioglieva le tre forcelle di osso su cui aveva avvolto per tutta la notte quelli davanti più corti che erano diventati tutti ondulati. Non parlava mai del tradimento avuto dal marito, lei non ha mai perdonato il nonno, infatti è vissuta con noi e non con lui.
Poi c'era anche la Miltaina in casa, veniva una volta al mese, faceva la sarta e accomodava tutta la nostra roba, allungava, rivoltava, rattoppava e cuciva per me camicette dalle sottogonne della nonna. Metteva la macchina da cucire vicino alla vetrina del terrazzo in cucina avendo come panorama il palazzo della Cassa di Risparmio, pedalava veloce, cuciva e cantava canzoni e filastrocche, chiacchierava con nonna e restava con noi tutto il giorno, la ricordo come una persona di famiglia.
Poi c'erano i figli Giovanni, il maggiore, Mario, io e Piero, più piccolo di me di tre anni. La mamma dopo il primo figlio non ha avuto più latte e io e Piero siamo stati dati a "balia".
La mia Balia era una contadina che insieme a suo figlio allattava anche me. Sono rimasta in contatto con lei fino da grande, mi raccontava che mi portava con sé nei campi perché doveva lavorare e mi metteva in una zana, cioè in una cesta per terra, per questo forse adoro la campagna, i colori, i fiori, l'erba.
La mia infanzia è stata molto semplice, giocavo assieme ai miei fratelli e ai loro amici e alle mie amiche, eravamo in tanti. Giocavamo in piazza San Giovannino con il barroccino dei Ferrari, gli stacciai di sulla Sala, erano dei fratelli che costruivano stacci di tutte le dimensioni ed a rete diversa, trabiccoli per gli scaldini e facevano tutto a mano, stavano seduti su seggiole basse con i grembiuli e tenendo lo staccio fra le ginocchia fino al completamento.
Andavo a catechismo alla domenica ed alla fine, prima di andare via, il Canonico sorteggiava i nostri nomi e ci regalava un "diecione" che noi spendevamo subito dal "milanaio" che aveva il banco vicino alla farmacia de' Ferri, che allora era dove ora c'è l'ufficio del Turismo, nel palazzo de' Vescovi. Quando entro lì, è strano...ma tomo indietro nel tempo e ricordo il dottore della farmacia che mi regalava le pasticche di potassio rosa che erano molto buone e dolci, forse me le dava perché sortissi dalle poltrone antiche di cui mi divertivo a far girare dei cerchietti che si trovavano ai braccioli.
Eravamo felici con poco, cercavamo al mercato i telai di legno sui quali i commercianti avvolgevano e svolgevano la stoffa e quando erano vuoti buttavano via, a noi servivano per costruirci tanti oggetti. Poi c'erano le battaglie con i ragazzi di altre zone, e poi c'era il campanile ... il figlio del campanaro era nostro amico e salivamo sempre su con lui e suo padre, noi suonavamo le campane più piccole, la corda ci portava su, ci alzava dal suolo e ... poi ci riportava giù. Non sono più tornata in campanile, troppa commozione mi darebbe, voglio che tutto rimanga nella mia memoria come allora.