Questo sito usa cookie di analytics per raccogliere dati in forma aggregata e cookie di terze parti per migliorare l'esperienza utente.
Leggi l'Informativa Privacy completa.

Logo Fondazione Archivio Diaristico Nazionale

Autore

Nicla Borri

Anno

-

Luogo

-

Tempo di lettura

-

Alcuni sprazzi di vita passata

Arriviamo così al 1940 -41, quando frequentavo le elementari di via dei Cancellieri, era iniziata la guerra e mio fratello maggiore era stato chiamato militare.
La mia maestra aveva messo in classe un quadro incorniciato da nastrini tricolori dove attaccava le fotografie dei babbi che si trovavano in guerra, aveva fatto attaccare anche la foto di mio fratello che era stato mandato in Russia, addetto a un macchinario che cercava gli apparecchi nemici. Dal mio banco lo guardavo, solo poi da più grande ho capito cosa deve aver patito, era vestito di grigio verde, con i pantaloni alla zuava, con le ghette, fasce intorno alle gambe, e quel cappotto di lana dura, indumenti certo non adatti a quel clima. Si è salvato ed è potuto tornare a casa per merito delle mamme russe che lo hanno aiutato.
Sembrava, allora, che vincessimo la guerra, i fascisti, anzi squadristi erano sempre più arroganti, mio padre era comunista, di famiglia comunista, siamo stati presi di mira e il nostro bar sempre preso di assalto come fosse stato un covo di anarchici.
I clienti sono diradati perché avevano paura, molti hanno preso la tessera fascista, mio padre no, però ha dovuto andare in prigione. Ogni volta che in città arrivava un grosso gerarca fascista mio padre veniva arrestato.
A scuola dovevamo aspettare l'una per ascoltare il giornale radio in piedi, a noi bambine cosa ci poteva interessare? Riusciva solo a impaurirci. Le classi non erano riscaldate, solo la maestra aveva il coppino sotto la cattedra.
Anche nel mio bar, durante il giornale radio i clienti dovevano stare in piedi, ricordo un giorno, forse era festa perché io ero a casa, il bar era vuoto, vi era solo un contadino che aiutato dal mio babbo scriveva una lettera a suo figlio in Russia, pensate che si poteva mettere nella busta due sigarette, dico due sigarette, il babbo non si alzò e continuò a scrivere, entrarono due fascisti con le loro divise nere, schiaffeggiarono il contadino e portarono via mio padre.
Credo che da allora la mia famiglia perseguitata avviò il suo declino, poi ci pensò la guerra.
Nel giugno 1943 bo fatto la prima Comunione, assieme a mio fratello Piero in cattedrale, mia parrocchia, mio padre non ha mai vietato ai suoi figli di frequentare la chiesa. Feci la Comunione ma non potei andare in processione perché era proibito ai bambini e alle donne, solo uomini perché c'era la paura degli allarmi aerei.

Una bomba cascò sulla mia casa e non esplose, entrò dal tetto e portò con sé quattro piani, divise la mia casa, un'ala giù e un'ala su, ma la volta che circondava i nostri piccoli scalini resse e ci salvò.

Arriviamo al primo bombardamento di Pistoia, fu di notte, il 24 ottobre 1943, eravamo a letto, si sentiva, diceva mamma, rumore di motori, ma quasi tutte le notti passavano colonne di carri armati. Il babbo si alzò e apri uno scuretto perché avevamo il coprifuoco, quando veniva buio dovevamo tappare tutto, non doveva trasparire nessun segno di luce, quando apri e vide tutto illuminato dai bengala, disse -ci siamo!- Chiamò tutti, così come ci trovavamo, in camicia da notte, scendemmo di corsa le scale, giunti alla porta principiò il bombardamento. Richiuse la porta e disse di andare in tre nel gabinetto e tre sotto la volta di una piccola scala che portava in tre stanze usate per lavoro e come magazzino che da via Roma portavano ad una seconda uscita in piazza della Sala, il babbo diceva che lì si sarebbe stati sicuri perché erano fatti a volta, la mamma però non volle dividersi e tutti e sei stemmo stretti l'uno all'altro su quei tre piccoli scalini...
Non sapete cosa fu quella notte, come un terremoto continuo, gli urli che si sentivano, piazza della Sala fu quasi tutta distrutta, ci morirono tante persone ...
Una bomba cascò sulla mia casa e non esplose, entrò dal tetto e portò con sé quattro piani, divise la mia casa, un'ala giù e un'ala su, ma la volta che circondava i nostri piccoli scalini resse e ci salvò. Il babbo aveva avuto ragione. Eravamo pieni di calcinacci, la nonna ferita, io piena di sangue, pure, strano ... ma non ricordo se abbiamo urlato, ricordo solo che affogavo nella polvere. Quando le bombe finirono di cascare uscimmo dalla porta che avevamo sulla piazza della Saìa, ma non vi era più strada, solo voragini.
Ci vennero in aiuto squadre di uomini che erano stati preparati a ciò e prendendo noi in braccio, e loro calandosi nelle buche, ci passavano l'uno all'altro, calandoci dentro la buca e poi facendoci risalire dall'altra parte. Ci hanno portato al pronto soccorso che quella notte era stato allestito nel grosso atrio dell'ospedale dove ora è il CUP, non vi dico cosa vidi quella notte, sangue dappertutto, feriti per terra, medici e infermieri tutti indaffarati, un grande caos, una grande paura, ci dettero delle coperte per coprirci, fasciarono e
medicarono la nonna, a me tagliarono i capelli per vedere se ero ferita perché piena di sangue, ma il sangue era della nonna, perché stretta a lei sullo scalino il suo sangue era scivolato sulla mia testa insieme ai calcinacci. Andammo in piazza del Duomo, nel rifugio che si trovava nella stanza alla base del campanile.
Il babbo volle tornare a casa per vedere se riusciva a prendere indumenti per sé e per noi. Appena aperta la porta non poté far altro che uscire e avvisare che dentro vi era una bomba alta più di lui. La bomba era entrata dal tetto, poi in camera di nonna portando giù tutto sotto in camera mia, sul mio letto, accartocciandolo e rimbalzando ha cambiato direzione andando di lato dove vi era un grande guardaroba, distruggendolo sfondando la parete e prendendo le scale per due piani, portandosele dietro e fermandosi ritta sull'ultimo pianerottolo.
Quando poi siamo potuti rientrare in bottega da lì si vide che vi erano sani solo sette scalini e dalla grossa voragine aperta fino al tetto si vedeva il comodino di nonna piegato verso la voragine e sopra inclinata, la statua di S.Antonio, sembrava incollata e che volesse guardare in basso lo scempio fatto dall'uomo. Quella statua di gesso era sempre stata sul comodino di nonna nella sua camera con il letto di ferro con le palle e il cassettone scuro con lo specchio che si ribaltava. Nessuno ha gridato al miracolo, perché credo in quei giorni siano stati molti i miracolati, ma io ho sempre pensato che quella statua ci abbia salvato.