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Autore

Daniele Granatelli

Anno

1998

Luogo

Lodi

Tempo di lettura

6 minuti

Il sapore del pane

Promisi che non li avrei dimenticati, che mi sarei sempre ricordato e che sarei sicuramente tornato a trovarli. Avevo creato un vuoto enorme in quella famiglia. Bene o male otto anni li avevamo passati insieme.

Si avvicinava la mia partenza. Ero felice, entusiasta. Pensavo ai miei nuovi compagni di scuola, ai nuovi amici, alla gente che avrei conosciuto, al sorriso di mia madre che al mio ritorno mi correva incontro e allargava le sue braccia per avvolgermi. Alla mia cuginetta Anna e ai miei due fratellini, al cinema la domenica pomeriggio all’oratorio, alla nuova vita che mi aspettava. Però, più il tempo si avvicinava più la mia allegria era in netto contrasto con il loro umore.

Arrivò il giorno. La Rina per prima scoppiò piangendo, mi abbracciò e mi baciò. L’Ermina continuava a soffiarsi il naso. Irma, quella figura rigida, inflessibile, anche lei singhiozzava, di spalle per non farsi notare. Amos e lo zio poi, sembravano due bambini pentiti, scusandosi con me se a volte erano stati un po’ duri, dissero che la porta per me era sempre aperta.

Qualcuno disse: “Non dimenticarci, vieni a trovarci quando vuoi”; anch’io mi commossi, anch’io piansi. Promisi che non li avrei dimenticati, che mi sarei sempre ricordato e che sarei sicuramente tornato a trovarli. Avevo creato un vuoto enorme in quella famiglia. Bene o male otto anni li avevamo passati insieme.

Quella cerimonia d’addio mi fece pensare molte cose in quel breve tempo. Mi resi conto che anche loro erano cambiati. Che forse io li avevo cambiati. La mia presenza, il mio modo di fare. Loro mi avevano dato molto, ma anch’io avevo dato qualcosa a loro.

I figli non davano più del Voi al padre o alla madre. Tutti si davano del tu. Lo zio era molto più aperto verso i figli e ogni tanto gli scappava anche qualche sorriso. Le zie pure, anche Irma che dominava tutti con il solo sguardo e non accettava nessuna forma di compromesso, era molto più accessibile e loquace, addirittura accettava consigli dal figlio Amos e dalle zie. Il più delle volte le richieste della Martina e della Luciana venivano esaudite da lei stessa. Qualche anno prima non si sarebbero mai permesse di chiedere qualcosa due volte. Credo che (senza volerlo) la mia permanenza abbia contribuito a dare a quella gente una nuova visione della vita.

Mi diedero tutti un bacio, anche Irma. Lo Zio e Amos mi misero nella valigia un salame del formaggio grana, un pezzo di coppa e due vasetti di marmellata.

Poi Amos diede un calcio all’avviamento del guzzino. Ci allontanammo lentamente; alla prima curva della strada mi voltai, erano ancora tutti in gruppo, con la mano alzata nell’aria ondeggiandola. Sparirono alla curva successiva.

 

Arrivai di venerdì pomeriggio con la mia lambretta blu, fu una gran festa. Tutti erano ansiosi di vedermi. Rina pianse, era molto emozionata, mi abbracciò, il suo viso umido dalle lacrime bagnò il mio e piansi a mia volta.

Con i Fantuzzi ci si scriveva un paio di volte all’anno. Avevo voglia di rivederli, così decisi di andare a trovarli. Mandai un telegramma dicendo che il fine settimana successivo l’avrei passato da loro.

Sapevo che avevano cambiato casa. La cascina l’avevano venduta e con il ricavato avevano comprato un’altra casa più piccola che poi avevano ampliato, e un onorevole pezzo di terra dove coltivavano solo frutta e uva per il loro fabbisogno.

Amos aveva un buon lavoro a Reggio, Martina aveva aperto un negozio di maglieria, Rina un negozio di vendita vini, Ermina continuava a cucire, Luciana era in procinto di sposarsi e gli altri avevano il loro daffare in quel pezzetto di terra.

Arrivai di venerdì pomeriggio con la mia lambretta blu, fu una gran festa. Tutti erano ansiosi di vedermi. Rina pianse, era molto emozionata, mi abbracciò, il suo viso umido dalle lacrime bagnò il mio e piansi a mia volta. Chiacchierammo a lungo, loro mi mettevano a conoscenza dei loro avvenimenti, ed io dei miei.

Mentre arrivavo quel pomeriggio con la lambretta, strada facendo notavo qualcosa di anomalo ma non riuscivo a capire cosa fosse, o forse in quel momento non ero interessato a capire. Poi arrivato alla nuova casa e guardandomi in giro mi resi conto che non c’erano più alberi nei campi.

Amos mi disse che circa cinque anni prima una grave malattia sconosciuta aveva fatto seccare tutti gli olmi, era anche per quello che avevano abbandonato la terra. La malattia aveva colpito una zona di circa 200 chilometri di raggio. I folti filari di olmi che reggevano le vigne non c’erano più.

Quella notte dormii nello stesso mio letto di otto anni prima, nessuno più lo aveva usato dopo di me.

 

[...]

 

Passarono molti molti anni. Lo Zio fu il primo a mancare, poi l’Ermina ultranovantenne, poi la Rina. L’ultima volta che la vidi mi disse che era felice di vedermi perché forse era l’ultima volta. E così fu. Due anni dopo mancò anche l’Irma. Tutti vicino ed oltre i novant’anni.

Oggi mia madre ha 82 anni. Piccola, curva, ma molto arzilla. Io lavoro all’estero da oltre 23 anni. Rientro due o tre volte all’anno ed è quasi sempre la prima persona che vedo.

“Ciao mamma come stai?” Lei: “Finalmente sei arrivato. C’è l’orto da zappare. Pulire la cantina. Mettere in ordine il garage”. Dopodiché mi saluta.

Ogni qualvolta rientro ci sono sempre cose prioritarie, prima di salutarmi. Ormai ci sono abituato. Me la stringo al cuore, le accarezzo i capelli mentre lei continua a borbottarmi l’elenco delle cose da fare. La guardo, ha ancora una bella pelle, la sua memoria è ancora lucida. Si ricorderà, ricorderà che sono suo figlio oltre ad essere l’uomo delle cose da fare? Dice: “I tuoi fratelli abitano lontano e non hanno tempo. Cosa aspetti a venire a casa definitivamente? I lavori si accumulano”. Le sorrido, le prendo il viso teneramente con le mani e le do un bacio sulla fronte. Chissà se lo avverte.