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Autore

Daniele Granatelli

Anno

1998

Luogo

Lodi

Tempo di lettura

16 minuti

Il sapore del pane

Chiesi allo zio quando mia madre sarebbe venuta a prendermi. Tutti mi guardarono e si guardarono, nessuno mi rispose, ma tra di loro sottovoce in dialetto borbottarono qualcosa, non capii e ripetei la domanda.

Il mattino seguente mi svegliai presto, non era ancora giorno. Non capivo dove ero, come fossi lì. Poi mi tornò tutto alla mente. Sapevo che alzandomi non avrei trovato mia madre, ma solo sconosciuti che mi avevano accudito qualche ora prima. Speravo di avere notizie dallo zio di mia madre. Mentre stavo al calduccio sonnecchiando, sentii per la prima volta il canto del gallo. Sapevo che era il gallo ma non l’avevo mai visto come non avevo mai visto conigli, tacchini, faraone, maiali. Mi alzai di scatto per poterlo vedere ma mi resi conto che il letto era altissimo, dovetti farmi scivolare per toccare con i piedi il pavimento. Mi vestii rapidamente e nel vestirmi notai che i pantaloni avevano la fodera là dove il giorno prima mi urticarono, inoltre c’erano, una camicia verde e un maglione blu chiaro molto più grande della mia taglia, ma mi ci trovai molto bene dentro.

Scesi dallo scalone, di fronte c’era la cucina, entrai. Non c’era nessuno, sul tavolo cinque scodelle coperte con piatti, del pane bianco, un tagliere con del salame già affettato profumato e appetitoso e sulla stufa un’enorme pentola nel centro e due pentolini piccoli a lato, da uno di questi fuoriusciva profumo di caffè. Era una stufa a legna con cerchi grandi, si intravedeva il fuoco attraverso. Non so che ora fosse ma nessuno aveva fatto ancora colazione. Mi guardavo intorno, delle pentole di rame di diverse dimensioni erano appese a dei ganci.

Dallo stesso luogo dove la sera precedente quelle tre donne mi avevano accudito, il canto di un uccellino usciva da una enorme radio; mi avvicinai ma improvvisamente il mio nome suonò alle mie spalle: “Daniele ti sei già alzato? Hai dormito bene? Hai fame?”

Le domande erano a catena, e senza lasciare spazio alla risposta, la donna continuò. “Io sono la Ermina, faccio la sarta, questa notte ti ho cucito la fodera nei pantaloni, ti sto facendo un altro paio di pantaloni con della stoffa più morbida”.

Ermina era una donna minuscola, già molto curva per la sua età, aveva 47 anni e non era sposata. In pochi minuti seppi tutto di lei.

Poco dopo entrarono tutti e mi guardavano esterrefatti. Parlavano tra di loro e mi guardavano. Io continuavo a non capirli, qualcuno spense la radio e si azzittirono. Ad uno ad uno poi si presentarono. Lo zio si chiamava Ennio, aveva 44 anni ed era il capo famiglia, fratello minore di Ermina. Rina la sorella minore di 36 anni, anch’essa nubile. Irma, la moglie dello zio, due anni meno di lui. Amos 16, primogenito. Luciana 14 e Martina 8. In sette componevano il nucleo famigliare. Facemmo tutti colazione, subito dopo chiesi di vedere il gallo e la Rina accettò di accompagnarmi. Avevo un po’ paura, non sapevo se fosse aggressivo o no.

Un enorme serraglio rettangolare, recintato da rete metallica, raggruppava circa un centinaio di galline: nere, rosse, bianche. Le faraone erano appollaiate sull’albero situato nel mezzo del serraglio. I tacchini vagavano liberi e le anatre, nonostante il freddo, galleggiavano nello stagno. Poi i conigli, i pulcini, i maialini. Ero entusiasta nel vedere tanta meravigliosa natura a me ancora sconosciuta, stavo in perfetta armonia con l’ambiente che mi circondava. Era tutto molto bello e la mattinata passò in un lampo, poi la Rina mi prese per mano e insieme entrammo nuovamente in cucina per il pranzo.

Ci mettemmo tutti a tavola, quel pane era veramente buono, e il resto pure. A tavola nessuno parlava. Chiesi allo zio quando mia madre sarebbe venuta a prendermi. Tutti mi guardarono e si guardarono, nessuno mi rispose, ma tra di loro sottovoce in dialetto borbottarono qualcosa, non capii e ripetei la domanda. Rina mi rispose e mi disse che per ora non poteva venire, ma che sarebbe venuta appena possibile. Come me lo disse non mi convinse. Ma sentivo che avevo molte altre cose da vedere e conoscere ed ero in quel momento molto più interessato a quelle scoperte che non alla presenza di mia madre.

 

Nessuno era fermo a parte me. Anche la Martina dopo la scuola dava il suo contributo. Tutti andavano da ogni parte e tutti sapevano benissimo dove. Erano una piccola comunità organizzata.

In quella famiglia ognuno aveva funzioni ben precise. Irma era l’addetta alla cucina. Oltre che a tirare sfoglie di pasta, cuocere polli, fare frittate, tortelli e molto altro, si preoccupava di avere sempre buon pollame e conigli per tutto l’anno, della conservazione delle uova nella calce per l’inverno, della conserva di pomodoro, delle marmellate, ed era la responsabile della dispensa. Rina aiutava nei campi a zappare, mietere, vendemmiare, fare le fascine, voltare ed ammucchiare il fieno. D’inverno filava e tesseva lenzuola di canapone, governava le mucche, mungeva quando gli uomini erano occupati in altre cose; in primavera era l’addetta all’orto, alle verdure di stagione e al giardinaggio. Ermina la sarta, aveva il suo da fare per tenere sempre in ordine l’abbigliamento di tutti. Inoltre lavorava anche per terzi perché ritenuta molto brava. Luciana, ancora giovane, ma già robusta fiancheggiava la Rina, aiutava la sarta e in inverno sferruzzava calzini di lana e maglioni. Martina, la più piccola, dopo la scuola aiutava la mamma in cucina.

E tutte in gruppo le donne lavoravano il lunedì e il venerdì di ogni santa settimana, il lunedì per il bucato, il venerdì per il pane. Il lunedì dalla lavanderia si prendeva l’acqua filtrata dalla cenere, la cosiddetta lisciva, per lenzuola, federe e biancheria varia. Per panni più sporchi facevano bollire un enorme pentolone d’acqua, spazzola e sapone e così via fino alla stiratura. Il giovedì sera si preparava il pane pronto per infornarlo il giorno dopo. E il venerdì mattina molto presto preparavano il forno. Verso le dieci era già pronto per la infornata, poi si chiudeva il forno e verso le undici e mezza si toglieva il pane. A cento metri di distanza si sentiva il profumo di quel pane così buono, tanto buono che il companatico a confronto non serviva.

Era di un sapore totalmente diverso da quello che mangiavo a Lodi e il sesto giorno era ancora più buono del primo giorno nonostante fosse duro.

Gli uomini, Zio Ennio e Amos, terminate la semina, la potatura, le pulizie dei fossi di irrigazione, si dedicavano al travaso dei vini, all’imbottigliamento. In inverno, quando la terra dorme, loro iniziavano un altra attività. Costruivano scope belle e solide, impagliavano sedie, riparavano carretti e finimenti, riparavano scale per la prossima vendemmia, falci per le nuove messi, accudivano alla nascita di un paio di vitellini o al parto di una scrofa, infine procedevano all’uccisione del maiale per farne poi dei deliziosi salumi e quando questo succedeva era un giorno di festa. Nessuno era fermo a parte me. Anche la Martina dopo la scuola dava il suo contributo. Tutti andavano da ogni parte e tutti sapevano benissimo dove. Erano una piccola comunità organizzata. Se qualcuno si trovava in difficoltà, qualcun altro aveva già visto e intuito. Era gente speciale.Il mattino seguente, quando mi svegliai, notai una luce strana filtrare dalla finestra e mi avvicinai per vedere. Durante la notte aveva nevicato abbondantemente. Avevo già visto la neve, ma mai in quello splendore. Mi vestii di corsa, scesi le scale e uscii fuori dal portico per vedere. Gli olmi erano bianchi, la strada, i fossi, gli argini, non esistevano più, era tutto candido, immacolato. Sembrava che tutti fossero d’accordo di lasciare tutto così. Anche il gallo quel mattino non cantò per lasciare quel silenzio ovattato. Più tardi il cavallo con la slitta, che portava il latte al caseificio, ruppe l’incanto bianco, tracciando nuovamente la strada scomparsa.

Era una scuola mista, la maestra ci dispose a suo piacimento, poi ci disse il suo nome, Renata. Era bella, bellissima, capelli neri, occhi neri e un sorriso meraviglioso.

Arrivò il primo giorno di scuola. Si andava a piedi, era distante oltre tre chilometri. Io e Martina dovevamo aspettare Carmen. Martina frequentava l’ultimo anno di quinta elementare e per una femmina era la meta da raggiungere per quei tempi. Nessuno ci accompagnò il primo giorno visto che Martina era abbastanza grande da badare a tutte e due. Io avevo una cartella di fibra nera consumata nei due angoli in fondo, un astuccio di legno contenente la matita, la gomma, i pennini e la penna, il portapennini, l’avrei sicuramente perso se non fosse stato legato con un robusto elastico di gomma all’abbecedario. L’aveva usata Amos che era già usata, poi la Luciana, Martina ed ora io. Indossavo un lungo grembiule nero, un colletto bianco, ed un enorme nastro azzurro a mo’ di papillon. Le bambine, grembiule bianco, colletto nero e nastro bianco.

Ci incamminammo tutti e tre, io, Martina e Carmen. Arrivati alla scuola, Camillo, il papà di Carmen, era ad aspettare. Era partito prima con il cavallo per portare il latte al caseificio, che distava un centinaio di metri dalla scuola. Voleva conoscere la maestra come tutti i papà o le mamme degli altri bambini. La cerimonia di presentazione durò quasi un’ora. Martina era nell’altra ala e sparì quasi subito. Io mi trovai in mezzo a genitori e bambini, poi alla fine entrammo.

Era una scuola mista, la maestra ci dispose a suo piacimento, poi ci disse il suo nome, Renata. Era bella, bellissima, capelli neri, occhi neri e un sorriso meraviglioso. Si avvicinò ad ognuno di noi chinandosi perché i banchi erano molto bassi per lei, chiedendoci il nostro nome, quale colore ci piacesse di più, cosa volessimo fare da grandi e cose simili. Poi arrivò a me. Odorava di buono, aveva un profumo di viole; la toccai timidamente, mi sorrise, mi animai e le accarezzai sul braccio la sua nera vestaglia; era liscia, non so che stoffa fosse ma era piacevole toccarla, sembrava seta. Prima di farmi le domande mi guardò e mi disse: “Non ricordo di aver visto il tuo papà o la tua mamma”. Dissi che la mia mamma aveva molto da fare ma che un giorno sarebbe venuta. Tutta la classe si mise a ridere. Ho provocato la prima risata il primo giorno di scuola. Poi la maestra li zittì e riprese con me la gradevole conversazione.

La gente di quei paesini era veramente gente speciale, ma io credo che tutta l’Emilia fosse gente speciale. Era gente dura, decisa e coerente.

Il tempo passava e la mia maestra era per me sempre più meravigliosa e importante. In primavera strada facendo, cercavo sulle rive dei fossi e vicino alle siepi giunchiglie e viole.

Carmen mi aiutava a cercarle e a confezionare il mazzolino. Per lei, per la mia maestra. Un giorno le dissi che se mi avesse aspettato, da grande l’avrei sposata. Mi guardò sorridendo e mi accarezzò la guancia. Lei si comportava così con tutti gli altri bambini, ma credo che con me fosse ancora più dolce. Tutti amavamo la nostra maestra. Un giorno si ammalò. Una supplente acida e brutta venne al posto suo. Si recitava la preghiera del mattino prima di iniziare le lezioni e pregavamo tutti che guarisse presto. La supplente non tollerava che ci si muovesse, che si parlasse con il compagno di banco, urlava, ci sgridava e ci faceva rimanere sempre oltre la campanella. Tutte cose a cui non eravamo affatto abituati; fortunatamente durò solo una settimana. Venne giugno e la scuola finì. L’ultimo giorno di scuola si fece una gran festa. Tutti promettemmo alla maestra di essere più buoni con la nostra mamma. Anch’io lo promisi.

La gente di quei paesini era veramente gente speciale, ma io credo che tutta l’Emilia fosse gente speciale. Era gente dura, decisa e coerente. Basti pensare alle prime cooperative. Nessuno ci credeva, c’era ancora una mentalità conservatrice nel resto d’Italia. Vennero di conseguenza le prime esportazioni. Il lambrusco, i prosciutti e i formaggi che in seguito diventarono doc, la meccanica con i primi trattori Lombardini, Lamborghini, le officine meccaniche reggiane, Ferrari, Maserati e tante altre industrie nate nei primissimi anni del dopoguerra. Era gente capace e volonterosa, non accettavano preliminari burocratici di intralcio, andavano dritti all’obiettivo.Erano paesi comunisti ma non del comunismo di Stalin (anche se era il loro simbolo). Era un comunismo a modo loro. Il film Don Camillo e Peppone con Fernandel e Cervi non era la storia di un paesino, ma la realtà di tutti i paesi dell’Emilia. Vi era una accanita disputa tra comunismo e chiesa, ma mai si sarebbero fatti del male. Il curato a messa finita, faceva la predica contro i comunisti, i quali a loro volta, alla casa del popolo, con il megafono davano la contropartita.

Io facevo Aramis. Entravo e uscivo dalla scena di continuo portando nuovi messaggi alla Regina.

Con la maestra non ci si stancava mai, non riuscivamo mai ad annoiarci. Aveva messo in scena un teatrino e noi eravamo tutti protagonisti. Una volta perfezionate le parti e ripetuto per diverse volte le stesse scene, la maestra invitò gli alunni della prima e della terza e anche le mamme.

Dei Fantuzzi non c’era nessuno. Avrei voluto che almeno la Rina venisse a vedermi anche se non era mia mamma. 

Il saggio ebbe grande successo. Così il signor Valent, il direttore della scuola, decise di fare lo spettacolo nel cinema teatro di Massenzatico, il giorno della festa patronale, invitando non solo i residenti ma anche i ragazzi della scuola elementare di Bagnolo, paesino che dista cinque chilometri da Massenzatico.

Una domenica pomeriggio di due settimane dopo, eravamo dietro le quinte del teatro cinema del paese. La sala era piena di gente e avevo un po’ paura. La maestra ci consigliava di non guardare in sala ma di concentrarci su quello che dovevamo recitare. I personaggi erano sicuramente stati copiati da A. Dumas. I tre moschettieri alla corte del Re. Ma i dialoghi e la storia erano un capolavoro della nostra maestra. Non c’era il Re, c’era la Regina con due ancelle, non c’era D’Artagnan, ma un giullare e tutti facevamo parte della corte.

Adriana immobile sul trono con la sua corona di cartone era bravissima ad impersonare la parte. Era imponente anche fuori dalla scena. Io facevo Aramis. Entravo e uscivo dalla scena di continuo portando nuovi messaggi alla Regina. Paolo e Romano erano gli altri due moschettieri. Tutti e tre vestivamo con costumi uguali e di carta, anche la spada cucita sui pantaloni era di cartone rivestita di carta stagnola incollata. In una scena, mentre facevo l’inchino alla regina, la lucente spada si piegò in due a forma di elle. Il pubblico rideva e io non capivo, me ne resi conto solo all’uscita di scena.

Sbirciai fuori dalla tenda, la sala era gremita. La Rina e la Martina erano là in mezzo.

L’inizio era stato un po’ titubante, eravamo tutti emozionati; la maestra tra le quinte ci consigliava di non guardare in sala. Terminammo il primo atto e allora guardammo verso il pubblico. La Rina e la Martina erano sempre là. Ero molto emozionato e contento, ma non sapevo se l’emozione era dovuta al fatto che per la prima volta qualcuno a me vicino mi ascoltava e mi applaudiva o per tutto quel pubblico. Terminammo anche la seconda parte e il successo fu completo. Si parlò a lungo di quella recita a Massenzatico e della bravura della maestra.