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Autore

Daniele Granatelli

Anno

1998

Luogo

Lodi

Tempo di lettura

10 minuti

Il sapore del pane

Ma al ritorno non sapevamo più quale fosse l’albero, di conseguenza non trovai più la cartella. Ero disperato: l’orario di rientro era arrivato, non potevo più aspettare e così ritornammo tutti alle nostre case, io senza la mia cartella.

Fu un anno nero per tutti, anche per me. Il primo giorno di scuola, lei, la mia maestra non c’era più. Era stata trasferita in un paese lontano da lì. Per me non aveva importanza chi la sostituiva, non era lei. La scuola senza lei non esisteva più, non aveva senso alzarsi il mattino per andare a scuola. Senza il suo sorriso, il suo profumo di viola, la sua vestaglia nera di seta, le sue bellissime storie, la sua voce dolce. Tutti noi eravamo tristi, ma io molto di più, io non avevo perso solo la maestra. La mia tristezza si trasformò in rabbia e andare a scuola diventava sempre più un sacrificio. La nuova maestra era intollerante, non sorrideva quasi mai ed era molto severa. La bacchetta per segnare sulla lavagna, la rompeva sulla cattedra per zittirci e la usava sulle nostre mani. Io oggi, sono un mancino puro che scrive con la destra grazie a lei. Non tollerava che si scrivesse con la sinistra, erano bacchettate se se ne accorgeva.

Andare a scuola era sempre più un sacrificio, così imparai a marinare. Coinvolgevo un paio di amici e almeno una volta alla settimana non si andava a scuola. Io scrivevo bene sia mancino che destro, avevo una bella calligrafia così giustificavo la mia assenza sul quaderno con la destra e con la sinistra quella dei miei compagni di avventura. Andavamo a giocare al pallone dietro la chiesa, a fare il bagno nel canale di irrigazione, ma il più delle volte si andava nei campi in cerca di nidi di uccellini, ad acchiappare rane, rubare ciliegie o frutta di stagione.

Per un po’ non se ne accorse nessuno. Poi un giorno marinammo nuovamente. Per arrampicarci sulle piante e rincorrere rane, la cartella e il grembiule erano un fastidio enorme. Così decisi di lasciare la cartella ai piedi di un olmo e il grembiule arrotolato alla cintura, al ritorno avrei poi ripreso la cartella.

Ma al ritorno non sapevamo più quale fosse l’albero, di conseguenza non trovai più la cartella. Ero disperato: l’orario di rientro era arrivato, non potevo più aspettare e così ritornammo tutti alle nostre case, io senza la mia cartella.

Entrai, ero in perfetto orario. Il primo ad accorgersene fu Amos, al quale alla domanda dov’era la cartella, risposi convincente che l’avevo lasciata a scuola perché pesante e non avevo né compiti né da studiare per quel giorno. Il mattino seguente anziché andare a scuola mi infilai in quella campagna alla ricerca della cartella perduta. Nulla assoluto. Rifeci quella zona avanti e indietro per almeno dieci volte, niente. Ero molto preoccupato, non sapevo come affrontare la situazione, non sapevo cosa dire al mio rientro a casa. Dovevo almeno rispettare l’orario. Presi la strada di casa per l’ora prevista.

Lo stesso mattino il contadino del campo dove avevo smarrito la cartella l’aveva trovata e leggendo l’indirizzo l’aveva portata direttamente a domicilio. Io ignaro entrai in casa. Mi stavano aspettando. Era già da un po’ che le schivavo.

Quel giorno le presi di santa ragione. E poi la predica di tutti. L’unica a non dirmi niente era la Rina. Io non facevo proprio niente per farmi voler bene.

 

Diceva inoltre che sarebbe venuta a trovarmi per castigarmi personalmente, ma non prima di ottobre. Non mi importavano le sue intenzioni, mi importava rivederla e abbracciarla.

Ormai diffidavano di me anche quando dicevo la verità, perché per coprire le mie malefatte ero diventato anche molto bugiardo. Così decisi a mio rischio di fare quello che volevo e non quello che loro volevano. Loro mi castigavano e io continuavo a fare a modo mio. Un giorno per castigo mi chiusero nel solaio al buio con un pezzo di pane e un mezzo bicchiere di saba (che era il mosto dell’uva non ancora fermentato; bollito era denso e dolce, si usava normalmente metterlo sulla polenta). Ci rimasi solo alcune ore, erano più addolorati loro a tenermi lassù che io a rimanere.

Non studiavo e disubbidivo, io sempre più discolo e loro disperati. Così pensarono bene di scrivere a mia madre e chiaramente raccontarle tutto. Mia madre a sua volta mi scrisse indignata una letteraccia diretta personalmente a me. Diceva inoltre che sarebbe venuta a trovarmi per castigarmi personalmente, ma non prima di ottobre. Non mi importavano le sue intenzioni, mi importava rivederla e abbracciarla.

C’era una cosa che mi stupiva di questa gente. Solo con me alzavano la voce e gridavano. Non li ho mai sentiti tra loro alterarsi. Non li ho mai sentiti scherzosamente offendersi tra fratelli con aggettivi come: “Stupidino o sciocchina”. Tra loro sembravano immuni da tutto questo. Pensavo. Forse se le dicevano di santa ragione quando io non c’ero, non volevano farsi sentire da me per non dare il cattivo esempio. Potevo capire il rispetto per la madre, il padre e le zie. Ma fra Luciana e Martina mai. Io in quella famiglia ero l’unica pecora veramente nera. Era evidente che anche da parte mia non c’era verso di migliorare la situazione, anche volendo sarebbe stato molto difficile.

Se io fossi stato orfano di madre, forse avrei accettato qualsiasi compromesso, mi sarei forse anche rassegnato al loro stampo, alla loro forma di vita.

Ma lei c’era, era distante ma c’era. L’amavo, non potevo dimenticarla e lei non poteva dimenticare me. In fondo era questo il mio rammarico, la mia rabbia. Lo stupore di non capire perché mi avesse abbandonato. Si, mi sentivo abbandonato perché nelle sue lettere non c’era mai una parola dolce per me. Mai un “ti voglio tanto bene”, un “ti stringo forte al cuore”, un “ho voglia di vederti”. Mai. Cercavo di non pensarci e non vedevo l’ora della sua venuta, vada come vada.

Quella notte non dormii, cercavo di immaginarmela. Cercavo di ricordarmi il suo volto la sua voce, i suoi capelli chiari, i suoi occhi lucidi come li ricordavo l’ultima volta che la vidi alla stazione di Lodi, il suo sorriso che mi perdonava tutto.

 

Continuavo ad amarla lo stesso, era l’unica cosa bella che avevo e che mi rimaneva. Pensavo di essere rimasto veramente solo.

Il mattino del 26 ottobre, Amos con il guzzino andò alla stazione a prenderla. Li aspettavamo a casa verso la mezza, ma alle undici erano già arrivati. Al rumore della motoretta uscimmo tutti in cortile. Una borsa grande e una valigetta di cartone furono le prime ad essere sbarcate, poi mia madre si tolse la sciarpa, salutò tutti frettolosamente, mi venne incontro, si abbassò e mi abbracciò. Rimanemmo così per un po’ emozionati, poi alzai gli occhi, tutti ci stavano osservando zitti. Mi allontanò dal suo cuore. Ora non percepivo più la sua emozione.

Guardandomi negli occhi disse: “Stai facendo tribolare questa gente, perché? Perché non vuoi capire che ti stanno aiutando? Perché a scuola non vai più bene?” Non riuscivo a rispondere. Avrei voluto dirle: “Voglio che tu mi aiuti, non loro. La mia mamma sei tu, io ho bisogno di te, perché mi hai abbandonato?” Le dissi solo: “Voglio venire a casa”. Lei mi guardò seria e non mi rispose.

Entrammo tutti in casa, ed ebbe inizio la cerimonia di presentazione. C’erano per l’occasione anche i parenti di Reggio. Parlavano, parlavano. Prima a pranzo e poi dopo pranzo. Io, che avrei dovuto essere al centro dell’attenzione per mia madre, mi sentivo escluso, ma mi piaceva sentire la sua voce anche se non era rivolta a me. Tutti seduti ad ascoltarla senza fiatare.

Mi avvicinai a lei mentre parlava, mi appoggiai sulle sue ginocchia, mi mise una mano sulla testa e ogni tanto mi accarezzava ma sempre intenta e concentrata a raccontare. Dalla parte opposta silenzio assoluto. Continuava a parlare senza mai guardarmi, senza mai sorridermi o prendermi sulle ginocchia, o dirmi qualcosa. Parlava di Mary, che in collegio soffriva molto, che era molto bella, che aveva dei capelli neri lunghissimi, che era anche molto brava a scuola. Parlava di Gino, pacioccone simpaticissimo e che la balia gli voleva molto bene. Poi parlò di mio padre, che era un vero delinquente. Parlò del suo lavoro, della sua vita quotidiana e di tante altre cose.

 

[...]

 

Nella lettera aveva chiesto un anno, ne erano trascorsi cinque. Continuavo ad amarla lo stesso, era l’unica cosa bella che avevo e che mi rimaneva. Pensavo di essere rimasto veramente solo. Non avevo volontà di fare niente, non ero interessato a niente, marinavo, non facevo i compiti. La mia situazione era inevitabilmente peggiorata.

Bocciato, ripetente in quarta. Loro continuavano a castigarmi. Non c’era giorno che non le prendessi di santa ragione, i rimproveri e le prediche ormai non li ascoltavo più. Loro sicuramente erano stufi di me, io ero stufo di tutti.

Mia madre mi scrisse, fu la seconda lettera indirizzata a me. Diceva che sarei potuto andare a casa nel periodo delle vacanze, poi se avessi studiato, dopo la quinta, sarei potuto andare a casa per sempre e iniziare le scuole medie a Lodi. Ma se rimani lì, aggiungeva, i Fantuzzi ti possono dare molte più possibilità che non qui da me. Non era rinfrancante la sua proposta, però mi lusingava perché finalmente sarei tornato a casa.