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Autore

Daniele Granatelli

Anno

1998

Luogo

Lodi

Tempo di lettura

7 minuti

Il sapore del pane

Perché così tanti bambini sono rimasti a terra? Forse all’indirizzo che avevano sul petto e sul tascapane c’era scritto che dovevano aspettare la loro mamma lì.

Uno alla volta scendemmo, sulla pensilina ci allineammo per due. Due donne, anch’esse con il fazzoletto rosso al collo, ci fecero attraversare i binari. Mi pizzicavano le cosce e il freddo mi stimolava la pipì. Uscimmo dalla stazione sempre in fila per due, sul piazzale esterno c’erano ovunque bandiere, prevalentemente rosse. C’era una folla enorme, la gente con il fazzoletto rosso riuscì ad aprire un varco da cui entrarono dei camion militari che si fermarono in fila davanti a noi.

Il nostro partigiano eroe salì sul cofano di un camion e attraverso un megafono iniziò un discorso. Nel frattempo mi allontanai dalla fila e feci pipì vicino alla ruota del camion più vicino, dopodiché rientrai nella fila. Dopo poco il partigiano terminò il discorso e la folla lo applaudì lungamente. Poi ci divisero in gruppi e ci fecero salire sui camion. Eravamo circa una ventina per camion, seduti su due panche una di fronte all altra. Nel frattempo un’altra persona si mise a parlare nel megafono. Ogni tanto qualche partigiano passava e buttava dentro dei sacchetti contenenti gallette e mandarini. Io non fui mai capace di afferrarne uno. Poi ci distribuirono delle coperte. Il secondo oratore finì il discorso e di seguito un altro lungo applauso.

Roberto non era più nel mio gruppo, dei miei cugini non avevo tracce, il sole si stava spegnendo, la stanchezza e il bruciore alle gambe mi tormentava. Mi misi a piangere. Il nostro camion si mosse e altri due ci seguirono, mentre altri bambini rimasero sul piazzale. Chissà dove erano i miei cugini, chissà dov’era Roberto, forse erano rimasti a terra, perché? Perché così tanti bambini sono rimasti a terra? Forse all’indirizzo che avevano sul petto e sul tascapane c’era scritto che dovevano aspettare la loro mamma lì. Per me era l’unica spiegazione. Anch’io avrei voluto aspettare la mia mamma li, ero stufo di questa gita. Un partigiano si avvicinò e mi avvolse ben bene nella coperta militare. Fuori era già buio, il convoglio macinava chilometri.

E se mia madre questo posto non lo conoscesse bene?
E se mi stesse cercando in un altro posto? E se fosse passata e non mi avesse visto?
Perché sono il più piccolo qui e non era facile vedermi.

Passarono molte ore prima che il camion entrasse in città. Una serie di curve poi finalmente si fermò. Qualcuno aprì il telone dall’esterno, abbassò la ribalta, e ad uno ad uno ci fecero scendere. Eravamo a Reggio Emilia, sotto i portici. I portici erano più alti di quelli della piazza di Lodi.

Dai tre camion scendemmo tutti. I partigiani ci misero con le spalle al muro uno di fianco all’altro e ben in vista. La gente ci guardava, ci guardava e passava. Ogni tanto qualcuno si fermava a parlare con uno dei bambini, scriveva qualcosa su un registro poi andavano via insieme. Noi sempre con le spalle contro il muro ci si stringeva per chiudere il vuoto del bambino mancante. Non erano né le loro mamme né i loro papà. Il mio primo pensiero fu quello di credere che fossero i loro genitori, ma non erano i genitori, non si comportavano come tali. Io aspettavo con ansia mia mamma, perché quella era sicuramente la fine della corsa, visto che camion e partigiani se ne erano già andati.

Un uomo alto, in bici, con un enorme tabarro scuro si avvicinò e mi chiese se volessi andare a casa sua con lui. Gli risposi che non potevo muovermi da lì perché stavo aspettando mia mamma e che sicuramente sarebbe apparsa da un momento all’altro. L’uomo scosse il capo, sorrise e se ne andò.

Eravamo rimasti ormai in pochi bambini. Il freddo era pungente più del bruciore delle cosce, ero stanco e impaurito.

E se mia madre questo posto non lo conoscesse bene?

E se mi stesse cercando in un altro posto? E se fosse passata e non mi avesse visto?

Perché sono il più piccolo qui e non era facile vedermi.

Pensavo: non ci vengo più un’altra volta!!

Chissà dove sono i miei cugini, forse sono già a casa al caldo.

Perché mia mamma tarda tanto? Se non viene come farò a tornare a casa?

Ancora oggi, penso che quel giorno sia stato il più lungo della mia vita.

Avevo già il groppo in gola, quando l’uomo alto con la bici e il tabarro si avvicinò nuovamente e senza scendere mi disse: “Dai Daniele vieni a casa con me, qui prendi freddo, vedrai, ti troverai bene”.

Il solo fatto che mi chiamò per nome mi stupì e mi confortò. Non pensavo minimamente che me lo avesse letto sul taschino del giubbino. Ma tu chi sei? Lui non rispose. Sei lo zio di San Colombano?

Avevo degli zii a San Colombano che non conoscevo, ma loro conoscevano me. Sì, sono tuo zio, mi rispose. Ti manda mia mamma? Perché non è venuta Lei? Non ci vengo più qui un’altra volta senza di lei. Non ricordo se rispose alle mie domande, ma accettai gioioso l’invito.

Da Reggio, il paesino dove viveva questo mio zio acquisito distava 7 chilometri, si chiamava Massenzatico. Ero sulla canna della bici, avvolto completamente nel suo tabarro, ero ben riparato dal freddo, solamente le mani che avvolgevano salde il manubrio erano congelate. La stradina era di ghiaia bianca e nella notte in aperta campagna il fragore delle gomme faceva abbaiare qualche cane di qualche casa vicina, al nostro passare. Non si vedeva niente, l’unica luce era quella del fanale a dinamo della bici. Il freddo cominciava ad intorpidirmi anche i piedi. Lo zio ogni tanto mi parlava, forse gli rispondevo, non ricordo. Ricordo che ero molto stanco e se avessi avuto un appoggio mi sarei addormentato anche sulla canna della bici.

Ancora oggi, penso che quel giorno sia stato il più lungo della mia vita. Finalmente arrivammo, entrammo nel cortile di una cascina e l’uomo si fermò; era ancora più buio di prima dato che la dinamo non girava più. Mi pose sulla soglia del portone, appoggiò la bici al muro e accese una lampada a petrolio. Entrammo dentro il portico della casa. Nel fondo del portico, un’altra fioca luce si avvicinava dall’alto verso il basso illuminando sempre più uno scalone e una sagoma. Era una minuscola donna in camicia da notte con uno scialle sulle spalle. Lo zio mi prese per mano e tutti e tre entrammo in una enorme tiepida cucina. Subito dopo entrarono altre due donne, sempre con camicione da notte, perché erano già a letto da qualche ora.

Si misero a parlare tra loro ma non capivo. Mi aspettavano, o aspettavano un bambino senza sapere chi fosse, ero oggetto di curiosità. Continuavano a parlare tra loro, il loro linguaggio aveva un accento strano e sconosciuto. Si stava bene in cucina, il tepore della stufa mi faceva rinvenire. Poi tutte e tre le donne si dettero da fare. Una mi spogliò, prese un cencio umido e mi lavò le parti ustionate. Poi mi lavò tutte le parti del corpo tinte di blu, infine sulle zone ustionate mi spalmò un unguento dall’odore sgradevole. Un’altra donna mi preparò una fumante tazza di latte con miele. La terza prese i miei pantaloni e sparì. Bevvi a stento metà del contenuto della tazza e crollai addormentato.