Autore
Daniele GranatelliAnno
1998Luogo
LodiTempo di lettura
9 minutiIl sapore del pane
Era la fine di ottobre, faceva già freddo, mia madre mi teneva per mano, ogni tre passi miei era uno dei suoi. Ci alzammo presto quella mattina ed era ancora molto buio. I rari lampioni illuminavano parzialmente la strada di pavé, da lontano si sentivano gli zoccoli di un cavallo e i cerchioni di ferro delle ruote del suo carro sul selciato. In giro c’era poca gente, qualche sagoma imbacuccata dalla parte opposta della strada che andava in senso contrario. Da casa nostra alla stazione si attraversava tutta Lodi passando dal centro, dopo i portici della piazza, corso Vittorio Emanuele era marcata da due parallele di granito chiaro.
Io sempre legato alla mano di mia madre mi allontanavo il più possibile per poter camminare su quel selciato. Avevo degli scarponcini con delle borchie sotto la suola e due mezzelune di ferro sui tacchi. Mia madre li fece mettere per non consumare il cuoio. E con la cadenza di marcia di un soldato battevo i piedi fragorosamente. Mi piaceva, mi esaltava.
Abitavamo vicino alla caserma degli artiglieri; ogni qualvolta usciva un drappello o una truppa, io li seguivo per tutta la via imitando la loro marcia, che al comando di un ufficiale ritmava una cadenza perfetta, e mentre loro si allontanavano io continuavo la mia marcia solitaria tornandomene indietro.
 
Ogni tanto mia madre mi tirava verso di sé un po’ seccata. “Presto! Dobbiamo fare presto o faremo tardi per l’appello”. Così mi distoglieva dalle mie fantasie di soldatino.
Ero inconsapevole di dove si andasse tanto di fretta, ma sapevo che era importante quel giorno, da un po’ di tempo se ne parlava.
Mia madre con sua sorella Irene, mia zia Adele, i vicini. Tutti si davano un gran daffare, si riunivano in casa per discuterne i preparativi e i preliminari. Io sapevo che ne facevo parte ma non sapevo cosa fosse e non riuscivo a capire. Da un vecchio pastrano militare di mio padre di colore griogioverde, ricavarono un elegante vestitino, giubbino e pantaloni che tinsero poi di blu. Su uno dei taschini pettorali del giubbino erano ricamate in rosso le mie generalità. Non sapevo ancora leggere ma quelle scritte mi piacevano tanto. Sembravo un soldatino con le insegne sul petto o qualcosa di simile. Un tascapane a tracolla non tinto ma della stessa stoffa, anch’esso con nome e cognome. Dentro il tascapane una busta.
Da circa un mese se ne parlava, sapevo che dovevo andare in qualche posto, ma non sapevo dove né perché. Anche la mia cuginetta Anna sarebbe partita con me. Anche lei non sapeva cosa l’attendeva, ma quando me ne parlava lo faceva con tanta felicità che riusciva a trasmettermi il suo entusiasmo. Era come se fosse qualcosa solo per pochi prescelti. Il cortile dove abitavo era enorme, chiuso da quattro mura alte due piani, moltissime famiglie ci abitavano, di conseguenza moltissimi bambini. Quando mi vedevano in cortile mi additavano e dicevano: “Lui, fa parte del gruppo che va”. Non sapevo cosa fosse il gruppo che va, ma mi sentivo di fare parte del gruppo con entusiasmo.
Un paio di giorni prima della partenza, vedevo mia madre molto strana, nervosa e non aveva occhi che per me. Mi accarezzava, mi prendeva sulle ginocchia, mi stringeva a sé dondolandomi, sembrava esistessi solo io in casa. La mia sorellina passava in second’ordine, di solito non era così. Mi trovavo bene, non mi lamentavo affatto anzi, tra il gruppo che va e le coccole della mamma mi sentivo un principino.
Mia madre era molto nervosa quel mattino, continuava a ripetermi le stesse cose: “Se ti viene fame, nel tascapane c’è un pezzo di pane”, oppure: “Presto, o faremo tardi per l’appello”. Non sapeva dire altro. Solo ogni tanto mi stringeva la mano che mi legava a lei in un modo molto dolce, come se mi volesse dire qualcosa, i suoi occhi erano fissi davanti a sé come un automobilista che viaggia in una fitta nebbia e spera di intravedere uno spiraglio che gli dia sollievo. L’ansia la turbava, era insicura, sperava di arrivare al più presto per poter trovare qualcuno che le potesse dare conforto, sostenerla. Non era sicura di quello che stava per fare.
Arrivammo nei pressi della stazione e già si notava un movimento animato, folla di gente e molti bambini occupavano il piazzale esterno della stazione illuminato non solo dai lampioni, ma anche da camion e auto.
Mia zia Irene arrivò prima di noi e mia madre la vide quasi subito, ci avvicinammo a lei passando stentatamente tra la gente accalcata. C’erano anche i miei due cugini, anche loro con la scritta sul petto e il tascapane a tracolla. Anna, nata un giorno dopo di me, e Luciano che aveva dieci anni. Io e mia cugina eravamo i più piccini, 4 anni, tutti gli altri superavano i sette. C’erano circa un centinaio di bambini, più o meno altrettante erano le mamme, una ventina di uomini, pochi di loro erano i papà di qualche bambino. La maggior parte erano uomini giovani e portavano un fazzoletto rosso al collo, li chiamavano partigiani, loro avevano organizzato tutto: “L’associazione partigiani d’Italia”.
I partigiani del centro Emilia, avevano offerto ospitalità ai bambini bisognosi di alcune località lombarde più depresse, ospitando per tre/sei mesi uno o più bambini per famiglia, dopodiché saremmo tutti rientrati alle nostre case. Sicuramente meno affamati. Ma io tutto questo l’ho saputo molto tempo dopo.
Uno dei partigiani era sicuramente il comandante, impartiva ordini e parlava con le mamme che lo assillavano di domande. Aveva degli stupendi scarponi lucidi di colore marrone anche lui con le borchie, pantaloni alla zuava, giubbino di pelle marrone, un berretto e l’immancabile fazzoletto rosso al collo. Parlò lungamente con mia madre e mia zia molto animatamente, perché non voleva accettare me e la mia cuginetta Anna, diceva che la responsabilità era troppa per due bambini così piccoli. Ma alla fine acconsentì più che altro perché conosceva mia madre ed era molto amico di un mio cugino, Nape (nome da partigiano), un partigiano morto a 17 anni per la resistenza, ucciso dai fascisti, tradito dal parroco che l’aveva battezzato. Nape era il mito martire di quell’epoca a Lodi, tutti sapevano di lui.
Il partigiano che impartiva ordini fece dividere noi bambini in tre gruppi in fila per due. Mia madre mi rimaneva sempre vicino, mi parlava, mi accarezzava, aveva gli occhi lucidi ma non voleva farsi vedere per non turbarmi. Io cominciavo a perdere quell’entusiasmo, non volevo più far parte di quelli che vanno, inoltre la mia cuginetta non c’era più, era l’unica che avrebbe potuto rinfrancarmi con il suo solito entusiasmo. Ma lei con suo fratello Luciano appartenevano al primo gruppo e salirono per primi su una carrozza di testa.
Mia madre mi consolava dicendomi che poi sul treno l’avrei rivista. Partì il secondo gruppo, poi toccò al nostro. Sempre in fila per due entrammo nella stazione, i partigiani ci facevano strada e ci guidavano, attraversammo i binari e arrivammo sulla pensilina. Mia madre ora mi guardava con occhi impauriti come se volesse strapparmi via dal gruppo e dirmi: “E’ tutto finito, andiamo a casa”, ma la sua mano si staccò dalla mia.
C’era molta confusione. Bambini che spingevano per salire, mamme che si raccomandavano, che piangevano. Anch’io piangevo. Mia madre stava un passo indietro da me e mi ripeté per molte volte: “Non ti devi preoccupare, è solo una gita in treno, quando arrivi non ti muovere da dove sei che io sarò lì il più presto possibile Aspettami lì che io arrivo, non ti muovere da dove sei, neh!” Aveva il viso rigato dalle lacrime e la sua voce era a tratti soffocata dall’angoscia, dalla paura. Io non capivo più niente, piangevo e invocavo lei. Qualcuno mi sollevò dal suolo per posarmi sul predellino della carrozza, mi voltai per poterla vedere, ma le mie lacrime me lo impedirono, sentivo solo la sua voce che mi ripeteva: “Non ti muovere, aspettami che arrivo”. Singhiozzando gli feci cenno di sì con la testa. Poi altri bambini mi spinsero dentro e poco dopo la porta si chiuse.