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Autore

Piero Terracina

Anno

-

Luogo

1938 -2003

Tempo di lettura

12 minuti

La memoria e la speranza

Vidi un soldato completamente vestito di bianco, era solo e imbracciava un mitra; si voltò verso di me e mi fece cenno con la mano di rientrare.

Il 27 gennaio del 1945, i pochi sopravvissuti che eravamo rimasti, circa 7000, fummo liberati dall'esercito sovietico. Pochi erano in grado di reggersi sulle loro gambe, altri si trascinavano sul terreno gelato facendo forza sulle ginocchia e sui gomiti, molti furono quelli che morirono nei giorni successivi alla liberazione. Non ci fu gioia al momento della liberazione. Ricordo molto bene quel giorno. Era la tarda mattinata; aprii la porta della baracca per andare a prendere un po' di neve che non fosse troppo contaminata dai corpi che giacevano sul terreno, per ricavarne un po' d'acqua da poter bere. Altra acqua non c'era. Vidi un soldato completamente vestito di bianco, era solo e imbracciava un mitra; si voltò verso di me e mi fece cenno con la mano di rientrare. Comunicai ai miei compagni che i soldati dell'esercito sovietico erano entrati nel campo ed eravamo liberi. Non ci fu nessuna reazione, qualcuno piangeva, altri pregavano; nessuno poteva gioire al pensiero degli scomparsi. Sapevo che non avrei più trovato i miei genitori, il nonno e lo zio, che in una selezione era stato scelto per la morte nelle camere a gas. Speravo di ritrovare mia sorella, i miei fratelli; speranza risultata vana.

Infine riuscii con molte peripezie a ritrovare la strada di casa. Della mia famiglia non c'era più nessuno e fu di nuovo disperazione.

Durò circa dieci mesi la permanenza nell'Unione Sovietica, ebbi contatti con gli ebrei del luogo e in particolare con la famiglia di Lyda un'infermiera ebrea che conobbi in un sanatorio ai piedi   del Caucaso, a Sochi sul mar Nero. Lida poi volle prendere il nome di mia madre: Lidia. Si prese cura di me; con lei nacque prima una forte amicizia e poi l'amore. Non c'è dubbio che questo fu il primo passo per il ritorno alla vita e mi fece capire che la vita poteva ancora riservarmi delle gioie. Entrai in corrispondenza epistolare con l'ambasciatore italiano a Mosca, Pietro Quaroni, che mi fu di molto conforto. Infine riuscii con molte peripezie a ritrovare la strada di casa. Della mia famiglia non c'era più nessuno e fu di nuovo disperazione. Mi salvarono gli amici ritrovati della scuola ebraica e due miei cugini che mi protessero e non mi lasciarono mai solo. Mi fu offerto un lavoro nel quale misi tutte le mie energie; in poco tempo fui in grado di mantenermi e trovare almeno tranquillità economica. Cominciai a vivere la mia seconda vita nella quale ho avuto tante gioie ed anche dolori come tutti. Ma il peso del passato a volte ritorna e diventa insopportabile. Al mio ritorno in Italia mi ero rivolto allo Stato con la speranza di poter avere un aiuto. Dopo varie visite mediche e indagini fatte da autorità preposte, dopo 8 anni mi arrivò un assegno.  48.065 lire, un po' meno di 300 euro di oggi, che destinai ad una iniziativa del giornale "Il Messaggero", che raccoglieva offerte "per casi pietosi". Conservo ancora la matrice dell'assegno.Ma come ho già detto appena tornato ebbi però la fortuna di trovare chi mi offrì un lavoro. E io non sapevo fare niente. Non potevo essere utile all'azienda. Lo fecero per me. Lo fecero per solidarietà; lo fecero per aiutarmi e forse anche in memoria dei miei fratelli e di mia sorella che loro avevano conosciuto.

Lo sterminio degli ebrei nella sua complessità sta tutto nella storia dell'Umanità, compiuto nel cuore della cultura europea e cristiana.

Con la ricorrenza del Giorno della memoria è aumentata la mia presenza nelle scuole dove dagli anni Novanta mi chiamano a testimoniare. "Se il ricordo della Shoah non si salda ad un'interrogazione lucida del nostro presente e non suggerisce ai giovani l'idea di un futuro meno indecente del passato è solo rituale invocazione che non accada mai più." (Sto citando le parole di un mio coetaneo Bruno Segre dalle sue memorie intitolate "Che razza di ebreo sono io"). Non si banalizza la Shoah se ricordiamo che essa non fu l'unico inferno che la storia abbia partorito nel corso del catastrofico ventesimo secolo; prima della Shoah ci fu lo sterminio degli Armeni, nella seconda parte del secolo ventesimo ebbero luogo le stragi di Bosnia, del Kossovo, in Ruanda, in Cambogia per citarne alcune. Lo sterminio degli ebrei nella sua complessità sta tutto nella storia dell'Umanità, compiuto nel cuore della cultura europea e cristiana. La Shoah insegna il contrasto tra la modernità e l'inettitudine della specie umana a difendere le conquiste della civiltà. L'indifferenza della maggioranza e delle istituzioni a tutelare oggi i più deboli tra i migranti è la stessa indifferenza di quando furono emanate le leggi razziste in Italia. Qualche volta è indifferenza, qualche volta ostilità. Ignorare sul piano storico la violenza del fascismo e del nazismo può facilitare la violenza di oggi in nome dello stato di emergenza, della guerra al terrorismo o ai migranti. Papa Francesco venne criticato per aver parlato di Lager contemporanei in riferimento ai migranti, ma io questa espressione la usai già nel 2015 in un'intervista che mi fece la rivista Confronti a cui collaborano cattolici, protestanti, credenti "senza chiesa." Queste le mie parole: "I migranti sono buttati in campi che tanto somigliano ai Lager." Non ci sono è vero camere a gas e forni crematori ma gli aguzzini sì; stuprano le donne, abusano in ogni modo dei migranti, li torturano e arrivati in Europa sono rinchiusi in luoghi emarginati in attesa di procedure senza fine". Rientrai in Italia nel dicembre 1945. Come per altri deportati l'occasione per la testimonianza arrivò negli anni Novanta quando si riaccende nell'opinione pubblica l'interesse sulla Shoah e per i racconti dei sopravvissuti. Da allora, come altri ex deportati partecipai agli incontri con gli studenti nelle scuole e a manifestazioni pubbliche, specialmente in connessione col Giorno della Memoria.