Autore
LilithAnno
2022 -2022Luogo
BangladeshTempo di lettura
8 minutiLe femmine e i cani non possono entrare
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Avevo solo ventun’anni ed ero sola con una bambina di due anni e mezzo, in un Paese dove non conoscevo nessuno e non sapevo bene la lingua, non avevo niente tranne che un assegno ancora da versare, non sapevo nemmeno come si versasse un assegno. Non avevo nemmeno un centesimo in mano per comprare da mangiare. La mattina dopo Laura mi accompagnò in cucina, dove incontrai altre cinque o sei donne, tutte con figli. Il salotto era pieno di bambini, Joy insicura avanzò verso quei bambini quando a un certo punto prese confidenza e iniziò a giocare con loro. Laura mi spiegò che quella era una comunità dove vivevano le donne e i bambini maltrattati. Lei e le sue colleghe mi avrebbero dato una mano a trovare un lavoro, una casa e un modo per sistemarmi, ma tutto questo aveva un prezzo. Di solito il comune dà un aiuto economico, ma dato che avevo un assegno di trentamila euro dovevo arrangiarmi. Mi fece sapere che solo per dormire in quella stanza mi sarebbe costato mille euro al mese e che il cibo dovevo procurarmelo da sola. Accettai, perché non avevo alternative, non conoscevo nessuno e non sapevo dove andare. Non sapevo bene la lingua, non conoscevo le usanze di questo Paese, non sapevo come muovermi, come comportarmi, dove cercare un lavoro o una casa, ero veramente ingenua e avevo bisogno del loro aiuto. Mi aiutarono ad aprire un conto e a fare la spesa, non sapevo nemmeno cosa comprare perché prima la spesa la faceva Monir. Imparai a farla grazie a loro, ma fino a quel momento a casa di Monir io avevo cucinato solo cibi bengalesi che lui comprava da negozi di alimentari bengalesi. Non avevo idea di come cucinare una pasta o come preparare un sugo. Una delle donne italiane che vivevano in quella casa mi insegnò a cucinare come loro, trovai davvero buoni i piatti italiani e anche Joy li mangiò molto volentieri. Passammo la giornata a fare conoscenza, le donne mi raccontarono le loro storie e io raccontai loro la mia. Mi sentii un po’ tranquilla che in fondo non erano costrette a prostituirsi e forse potevo fidarmi di loro. La sera mi chiamò mia madre, mi informò tutta felice che Monir era stato arrestato. L’aveva saputo da uno dei fratelli di Monir e mi chiese se avessi già prelevato i soldi e mi disse di mandarli subito nel conto di mio padre in Bangladesh. Mi rattristava il fatto che mia madre pensasse solo ai soldi, anche in un giorno come quello in cui io mi trovavo in un Paese sconosciuto, sola e con una bambina piccola. Poco dopo mi chiamò il fratello di Monir, ma non risposi. Non volevo sapere più nulla di lui. Avevo troppo paura di quella persona. Una delle mamme regalò un pallone di stoffa colorata a Joy, dentro c’erano delle campanelle che facevano un suono simile al tintinnio delle chiavi. Il mio cervello associava quel suono al rumore delle chiavi di Monir quando tornava a casa. Ogni volta che Joy lanciava quel pallone e sentivo quel suono, avevo un forte crampo allo stomaco e dovevo correre in bagno. Ero riuscita a scappare da lui e sembrava che le persone con cui stavo erano affidabili, ma non ero tranquilla, ero carica di stress, preoccupazioni, incertezze e paure. È vero che quelle persone mi avevano dato un posto sicuro, ma per quanto ancora sarei potuta restare lì? Vivere in quella casa mi costava tanto, una volta finiti i soldi cosa avrei fatto? Chi mi avrebbe dato un lavoro? Cosa ero capace di fare? Oltre a lavorare nelle bancarelle di Monir io non avevo mai lavorato in vita mia.
Non avevo idea di che cosa mi aspettasse il giorno dopo. Trasmettevo tutto quel malessere e quello stress anche a Joy e in effetti quella sera dal nulla Joy prese la febbre e cominciò a perdere sangue dal naso, facendomi spaventare tantissimo. Ero davvero preoccupata, non sapevo cosa le stesse succedendo. Il giorno dopo mia madre mi richiamò e mi chiese nuovamente di mandare tutti i soldi nel conto di mio padre, si era arrabbiata perché non l’avevo già fatto. Non mi chiese mai se stavamo bene o come ce la stavamo cavando, ma era molto frettolosa sul fatto che dovevo inviare immediatamente tutti i soldi lì. Mi diede nuovamente il numero del conto di mio padre: “Ti ordino di mandare immediatamente tutti i soldi nel conto di tuo padre”, mi disse. Io mi sentivo spezzare dal dolore, tutta quella frenesia di mia madre per i soldi mi faceva sentire davvero sola in questo mondo. Non riconoscevo più quella donna, non ero certa che fosse la stessa donna che amavo con tutta me stessa e per cui ero pronta a dare la mia vita. Mi mancava mia madre e non ero sicura che la donna al telefono fosse davvero lei. Poche ore dopo mia madre mi richiamò e mi raccontò che Monir era già uscito dalla prigione e che l’aveva chiamata. L’aveva minacciata dicendole che sarebbe venuto in Bangladesh e si sarebbe vendicato per quello che gli avevo fatto stuprando le mie sorelle in mezzo alla strada davanti a tutti. Poi le aveva chiesto indietro i soldi che aveva dato ai miei genitori in precedenza. Se non li avessero restituiti subito, lui gli avrebbe fatto causa, quindi mia madre voleva che le mandassi i soldi per saldare il debito con Monir. Ero preoccupata per la mia famiglia che mi chiamava giorno e notte per dirmi che Monir continuava a insistere per chiedere i soldi. La parola “soldi” ormai era diventato l’argomento principale e la chiave di tutto, ero stanca di sentire parlare solo di soldi, non ne potevo più. Chiesi alle operatrici della comunità di darmi una mano per spedire i famosi soldi ai miei genitori, spiegai anche il motivo, ma loro mi dissero che Monir aveva dato quei soldi ai miei genitori per dare una mano. Non erano un prestito e quindi non bisognava restituire niente e poi lui aveva comunque intascato tutti i soldi che aveva ricevuto Joy dall’assicurazione. Quindi non dovevo mandare nulla a nessuno. Mi spiegarono che quei soldi mi sarebbero serviti per proteggere me e Joy e che non dovevo sentirmi in dovere di mandare niente. E così feci. Non mandai i soldi ai miei genitori e spiegai loro che Monir non avrebbe potuto fare niente legalmente contro di loro e che non dovevano dare il loro indirizzo di casa in città a lui o ai suoi parenti. Per fare del male alle mie sorelle prima dovevano capire dove vivevano, ma nessuno della famiglia di Monir sapeva dove erano alloggiati i miei familiari dopo che mia madre era andata via da quel villaggio. Il giorno dopo mi chiamò anche mio padre, fu la prima volta che mi chiamò da quando ero in Italia. Erano passati quasi quattro anni. Ero rimasta incinta, avevo avuto una bambina, avevo avuto un incidente in cui avevo rischiato la vita, ma mio padre non mi aveva mai rivolto la parola. Stranamente invece quel giorno mi chiamò e mi chiese anche lui quando avessi inviato tutti i soldi nel suo conto.