Autore
Elsa CrevatinAnno
2011 -2012Luogo
GreciaTempo di lettura
6 minutiDa una terra all'altra
Bruscamente, il 28 ottobre 1940 si apriva un capitolo nuovo della mia vita e si apriva non col fruscio lieve di una pagina che si volta, bensì col clangore di una guerra che scoppia. Era un lunedì mattina che faceva seguito ad una normalissima domenica, eppure fummo svegliati dalle grida di "Polemos! Polemos!" Guerra! Guerra! Alle 6 in punto, sul confine albanese, l'Italia aveva aperto le ostilità contro la Grecia. Mussolini aveva deciso di spezzarle le reni .. Per noi, che amavamo quella terra come una seconda patria, fu una doccia freddissima ... Incomprensibile. Non avemmo neppure il tempo di renderci bene conto di quel che succedeva che entro poche ore tutti gli uomini italiani dai quattordici anni in su venivano prelevati dalla polizia, trattenuti come ostaggi e concentrati in un edificio scolastico, poi trasferiti nel Peloponneso. E' strano come in quelle poche ore concitate le notizie circolassero, più o meno esatte, con sorprendente rapidità... tanto che mio padre ebbe appena il tempo di consegnarmi la chiave del suo grande armadio e raccomandarmi di avere cura della mamma, della nonna e della zia, prima che i poliziotti prelevassero anche lui. Perché proprio a me, che ero la più giovane, tale compito? Forse, con quel gesto, papà, con me sempre così avaro di coccole e di parole, voleva dimostrarmi la sua fiducia, considerarmi matura e giudiziosa? Rimaste sole, forse non piangemmo neppure di fronte al vuoto che si spalancava davanti a noi ... eravamo come paralizzate.  Poi, dovemmo riorganizzarci una vita da "persone agli arresti domiciliari in territorio nemico".
Intanto quelle chiavi mi intrigavano assai, perché sapevo che quell'armadio conteneva cose di cui mio padre era geloso. Lo apriva soltanto per il minimo indispensabile, quando doveva estrarne i suoi fucili da caccia e preparare le sue cartucce. Era questo uno dei rari momenti in cui potevo stare vicino a lui, ma senza troppe confidenze. Lo osservavo. I gesti ripetuti erano diventati ormai un rituale che non esigeva molte parole. Aperto l'armadio, ne estraeva varie scatolette che contenevano pallini di piombo, feltri, cartoncini rotondi bianchi e ovviamente le cartucce da riempire. Su una di quelle scatole di latta ero riuscita a leggere una scritta in italiano "SIPE". Immaginate la mia sorpresa, quando tanti anni dopo sospinta a Modena dalla mia vita involontariamente randagia, passando da Spilamberto, vidi una fabbrica col nome SIPE (Società italiana polveri esplosive)! Oggi quell'emozione sarebbe impossibile da provare, perché quella fabbrica non c'è più. Ma, tornando al rito delle cartucce, papà si era creato dei misurini con gli astucci di metallo dei termometri di una volta, quelli a mercurio per intenderci, così poteva fare a meno della bilancina di precisione. Ora non ricordo più quale fosse l'ordine di introduzione dei vari componenti, ma a me toccava il compito di girare la manovella della macchinetta che ripiegava sul cartoncino bianco il bordo della cartuccia, assicurandone la perfetta chiusura. Compito di responsabilità  che io svolgevo con grande serietà e impegno, mentre Grom, il nostro  cane, accovacciato sotto il tavolo, già pregustava il piacere della caccia. La caccia: uno sport cui papà era stato iniziato da giovanissimo. Unica passione della sua vita che per tutte le domeniche, dal 15 agosto al 31 marzo di ogni anno, lo sottraeva a mamma e a me. Solo da adulta, quando lui non c'era più, mi sono chiesta com'era possibile che un uomo che odiava  la guerra e la violenza, profondamente religioso, amante della natura fino a soffrire fisicamente quando opere di bonifica alterarono l'aspetto di certe zone umide e paludose, che secondo lui erano tra i paesaggi più belli e mistici del mondo, com'era possibile che non sapesse resistere al piacere di imbracciare un fucile, sparare a un volatile o una lepre, spartire col suo cane la gioia del riporto e, poi, forse come unico ed ultimo rispetto per l' innocente vittima, un totale e ostinato rifiuto di assaggiarne le carni. Ho capito che per lui le armi potevano essere non solo oggetto di potenziale offesa ma anche espressione di perfezione tecnica, nonché estetica.
Infatti, quando aprii l'armadio alla presenza della mamma oltre ai cinque fucili da caccia tutti lucidi nelle loro custodie, trovammo una scimitarra turca, un pugnale, un revolver e non ricordo più che cosa ancora. Fummo prese dal panico. Non sapevamo se queste armi erano denunciate o no, non sapevamo se dovevamo consegnarle o meno alla polizia. Si sentiva già parlare di corte marziale, perché eravamo in guerra. Se le cose si fossero appianate in breve tempo, se le truppe italiane fossero presto, come speravamo, giunte a Salonicco, e mio padre fosse tornato dal campo di concentramento di Argo, cosa avrebbe detto non trovando più i suoi fucili? Mi affidai allora all'amicizia di Anna e Giorgio che la guerra non aveva alterato. Ci incontravamo ancora di notte, in segreto, dove i nostri cortili erano divisi solo da un muretto facilmente scavalcabile, al riparo da occhi curiosi. Compresero le mie ragioni ed accettarono di conservare i fucili, fino all'eventuale ritorno di mio padre. Nessuno, allora, poteva prevedere il nostro forzato rimpatrio.