Autore
Elsa CrevatinAnno
2011 -2012Luogo
GreciaTempo di lettura
8 minutiDa una terra all'altra
L'estate volgeva al termine. Le giornate s'accorciavano e l'aria era dolce. Al mattino si facevano ancora i bagni e la sera, dal nostro terrazzo sul mare, ci godevamo il tramonto prima che il buio totale avvolgesse le case e le strade per via dell'oscuramento. 8 settembre: la radio annuncia che l'Italia stremata dalla guerra ha chiesto l'armistizio. Momento storico vissuto da ognuno in modo contraddittorio: sollievo per la cessazione delle ostilità e causa di tanti lutti e sofferenze, umiliazione per aver dovuto cedere al nemico che con tanta baldanza avevamo sfidato. La gente, scesa per le strade, manifestava in prevalenza sentimenti di gioia e la sera, dopo tanti anni, il lungomare di Parenzo fu tutto illuminato. Ancora una volta, mio padre era perplesso e pessimista: la situazione non era chiara. Bastarono, infatti, pochissimi giorni per accorgerci di che cosa significhi un paese allo sbando senza più autorità né disciplina. La caserma, abbandonata, fu devastata in poche ore. Ho visto gente portar via sulle spalle porte, finestre, suppellettili varie. Una smania di distruzione davvero insospettabile e contemporaneamente gesti di grande generosità. Sì perché comparvero a Parenzo molti soldati della Julia che, rimasti senza comandanti, cercavano in qualche modo di raggiungere le loro case, possibilmente in abiti civili, e la gente li rivestì e li rifocillò con quel poco che aveva. […]
[...] All 'alba del 12 Ottobre (1943) in un momento di tregua, se tregua si può chiamare l'intervallo tra eventi così drammatici sempre con una valigia a testa, ci imbarcammo su una puzzolente saccaleva, la barca adibita alla pesca, in genere, del pesce azzurro. Lo zio con altri parentini aveva organizzato la fuga verso Trieste. Nella grande città era più facile entrare nell 'anonimato. Si trattava di persone adulte, alcune avanti negli anni. Io ero la più giovane. Nella parte inferiore della barca dove di solito si collocavano le cassette piene di pesce tolto dalle reti, furono sistemate le nostre valigie. Noi fummo invitati a sedere sul "ponte", vasto quanto tutta la barca, e ad appoggiare la schiena contro il bordo alto non più di una cinquantina di centimetri. Stando in piedi si rischiava di perdere l'equilibrio. Sarenuno stati in diverse decine di fuggiaschi, ma io non conoscevo nessuno di loro. Cominciava un'altra avventura. Molti, molti anni dopo sentimmo parlare del dramma delle popolazioni in fuga dal sud-est asiatico su inaffidabili carrette del mare, finite poi in tragedia. Furono chiamati boat-people. Nel nostro piccolo, visto che dovevamo solo attraversare il golfo di Trieste, fummo i loro antesignani, anche noi in qualche modo boat-people. Quando la barca si mise in moto il cielo era limpido e il mare quasi calmo. Tutti erano piuttosto silenziosi ma il mio cervello pensava alla coincidenza delle date: 12 ottobre Colombo sbarcava in un altro continente che si sarebbe chiamato America, 12 ottobre noi speravamo di sbarcare in un porto che aveva già un nome: Trieste. Ma così non fu. Man mano che ci allontanavamo dalla costa, la brezza del mattino rinvigoriva sempre più e improvvisi refoli di vento facevano sobbalzare la barca. Il mare s'increspava e le creste delle onde si sfrangiavano in bianchi merletti di schiuma. Sui naviganti "di non lungo corso" giungevano spruzzi fastidiosi, e alcuni stomaci cominciarono ad esprimere il loro disappunto. Ero la più giovane e quindi la più agile per cui sentii il dovere di farmi dare un secchiello, che era poi una scatola vuota di pomodoro da cinque chili, e, in bilico, fare la questua passando davanti ad ognuno degli offerenti, alias sofferenti. Le cose non andarono che peggiorando. La barca, controvento, avanzava con fatica e la situazione diventava pericolosa. Nel tardo pomeriggio i pescatori decisero che sarebbe stato più saggio fermarsi nella baia di Portorose e tutti fummo d'accordo. Portorose, oggi famosa stazione balneare fornita di Casinò, era anche allora meta di cure ma non aveva che due o tre alberghi. In quelli ci rifugiammo in attesa che la bora cessasse e ci concedesse di riprendere ilviaggio . Dovemmo aspettare due giorni buoni.
Fuggire davanti a un pericolo è istintivo e pur di avere salva la vita uno fugge con solo quello che ha indosso. Se invece ha un po' di tempo per organizzarsi, provvede anche a mettere in salvo quello che potrà essergli utile per la sua sopravvivenza. Ma noi, papà, mamma ed io, che già avevamo perduto tutto, su che cosa potevamo contare? Ancora una volta ci salvò l'affetto e la generosità degli zii. Lo zio aveva a Trieste una sorella sposata ad un professore di matematica. Delle loro tre figlie due erano già maritate e fuori casa; con i genitori c'era solo la terza, bellissima, che dopo la guerra sarebbe diventata una ritrattista famosa (Nora Carella Chiappulini). Tutti loro furono nei nostri confronti di una sensibilità non comune. Ci aprirono le braccia e la loro casa fraternamente. Certo che sistemare cinque persone non è cosa facile, ma essi prepararono una camera per gli zii e insistettero perché anch'io mi fermassi presso di loro. La sera avrebbero trasformato in letto il divano del salotto. Per mamma e papà si trovò una camera in un modesto albergo. Fu a questo punto che gli zii ci chiamarono in disparte e mettendomi un libretto di risparmio in mano mi dissero semplicemente; "è tuo". Avevano finto di accettare, per non mortificarci, i pochi soldi guadagnati con il nostro precario impiego con cui io e papà cercavamo di non gravare totalmente su di loro, ma tutto, a nostra insaputa, avevano depositato su quel libretto intestato a me. Questa volta non eravamo neppure in grado di protestare o rifiutare.  Da nessun altra parte poteva venirci un aiuto e l 'albergatore non si sarebbe certo commosso al racconto delle nostre vicende personali. Ancora una volta constatavamo la rara squisitezza d'animo di questi nostri cari zii. I tedeschi, intanto, sbaragliate le poche resistenze di un esercito italiano allo sbando, si erano impadroniti della città affiancati dai soldati della neonata Repubblica di Salò. Il territorio di Trieste era ormai una repubblica a sé, ma sotto l'imperio di uno straniero dalla disciplina ferrea: il Gauleiter. Sempre meglio che alla mercè dei titini. Quando ci fu chiaro che anche alcune delle zone dell'Istria e tra queste Parenzo erano sotto il controllo dei tedeschi e fascisti, che garantivano una certa sicurezza agli italiani, papà, mamma ed io tornammo "a casa" ove ancora potevamo avvantaggiarci delle provviste alimentari che ci avrebbero aiutato a superare l'inverno. E così fu. Gli zii rimasero a Trieste. Fu durante quegli orribili mesi che tedeschi e italiani cominciarono a scandagliare le foibe istriane diventate poi così tragicamente famose per il barbaro, crudelissimo modo con cui i titini soppressero tante persone la cui unica colpa era quella di essere italiani. Non tutte quelle povere vittime fu possibile riportare in superficie, data la profondità e la tortuosità di quelle voragini naturali (fino a 300 metri). Ma alcuni particolari agghiaccianti, come i segni delle torture e il filo di ferro con cui a due a due avevano legato i polsi dei condannati, (ma si sparava ad uno solo in modo che il morto trascinasse nel baratro anche quello vivo), accrebbero ancora di più negli istriani lo sgomento e il terrore. L'Italia ormai era divisa in due e, quel che era peggio, un odio crescente divideva i fratelli. Fascisti e partigiani, la cui scelta di campo era stata determinata, a volte, non per intima convinzione ma per circostanze cogenti, si combattevano fino all'ultimo sangue.