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Autore

Elsa Crevatin

Anno

2011 -2012

Luogo

Grecia

Tempo di lettura

11 minuti

Da una terra all'altra

"Tanto ai profughi", così disse, "non serve". Non ci saremmo più tolte di dosso quella triste etichetta.

Passò l'inverno, un inverno sempre più triste e duro per il freddo e per le condizioni della gente che divenivano sempre più precarie. E venne per noi l'ordine di espulsione dalla Grecia. Tempo: 48 ore. Bagaglio: una valigia a testa. Destinazione: Italia. Ma dove? In quale città? E con quale sistemazione? E cosa mettere in valigia? Le discussioni furono infinite. Le valigie erano gonfie e noi quattro pure, avendo infilato sotto i cappotti il maggior numero possibile di indumenti .. Avevamo anche un cappello in testa, una sciarpa al collo e non mancavano le galosce ai piedi. Allora si usavano. Niente gioielli e solo 200 dracme a testa, secondo le disposizioni ricevute. Venne un funzionario della banca greca a controllare il contenuto delle valigie. E dopo averci bene osservate sentenziò che le galosce non erano previste e che pure quell'ombrello che tenevo in mano doveva essere lasciato. "Tanto ai profughi", così disse, "non serve". Non ci saremmo più tolte di dosso quella triste etichetta. Ma non tanto quella parola mi ferì, quanto il dover lasciare l'ombrello che ormai era divenuto parte della mia persona. Ebbi un attimo di smarrimento, che vidi riflesso negli occhi delle mie donne, ma subito mi folgorò un lampo di genio. Era venuta a salutarci una cara amica italiana, sposata ad uno svizzero e quindi non soggetta al trattamento a noi riservato. Le buttai le braccia al collo, trasformai le lacrime di stizza in lacrime di commozione. . mentre la stringevo le sussurrai in italiano: <<Sofia, dentro l'ombrello c'è qualcosa>>. E poi forte in greco, con un'aria drammatica degna di un miglior palcoscenico: <<Sofia, non ho niente da lasciarti, ma poiché non posso portare con me l'ombrello, prendilo tu, e serbalo come ricordo di noi tutte!>> Il funzionario guardò e non disse nulla. Sofia ci lasciò anche lei con le lacrime agli occhi. Io vidi allontanarsi l'ombrello, ma affidato a buone mani. Era il 28 marzo 1941.

Poi, lei, in italiano, mi disse con la massima semplicità: "Elsa, ti ho portato quello che tu mi hai consegnato allora"

Per chi volesse sapere come fini la storia, dovrei aprire una lunga parentesi ricca di eventi straordinari che riempirono più di dieci anni della nostra vita, durante i quali nessuno pensò più all'ombrello. Con quello che era successo in Grecia: guerra, carestia biblica, guerra civile, l'uso di quel piccolo tesoro da parte dei depositari sarebbe stato più che giustificato. Invece, un giorno d'ottobre del 1952, ci raggiunse una lettera..era di Sofia. Mi pregava di recarmi alla stazione di Milano, precisando giorno e ora, perché, mi spiegava, la vita a Salonicco era divenuta impossibile, ed il marito svizzero aveva deciso di rimpatriare per poter dare un futuro ai suoi due figlioli di 7 e 5 anni. Non avremmo avuto che pochissimo tempo fra un treno e l'altro, ma, essendo riuscita a rintracciarmi, desiderava cogliere questa occasione per riabbracciarmi e farmi conoscere i figlioli. Papà era morto da un mese, da poco avevamo finalmente una casa vuota, ma nostra dopo anni di randagismo e camere ammobiliate, ed un viaggio fino a Milano solo per riabbracciare un'amica, per quanto cara, poteva sembrare un capriccio ingiustificato. Forse anche mamma avrebbe voluto venire con me, ma sarebbe stato troppo. Così partii sola. Non ero mai stata a Milano. Puntuale il treno si svuotò dei suoi passeggeri che si affrettavano verso l'uscita... sulla banchina, tra fagotti e valigie, soltanto una famigliola con due bambini. Erano loro. Ma, Sofia, quanto cambiata, quanto invecchiata. Ci stringemmo con una forza che voleva esprimere tutte le dolorose esperienze vissute da ognuna di noi dopo quel lontano giorno di marzo del '41. Parlammo in greco, unica lingua compresa dal marito e dai suoi bambini. Poi, lei, in italiano, mi disse con la massima semplicità: <<Elsa, ti ho portato quello che tu mi hai consegnato allora>>. Ancora oggi, quando ci ripenso , trovo  che questo gesto di onestà, di amicizia, perfino di speranza a tempo indefinito di un possibile incontro, valga mille volte di più del valore di quelle poche monete.

Finalmente arrivò il tanto atteso treno dei prigionieri e fu un momento di grande gioia e commozione. Le famiglie si ricomponevano con baci, abbracci, carezze e lacrime.

"Tu lascerai ogni cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l 'arco dello essilio pria saetta ... "

Non immaginavo mai, quando lessi questi versi durante la lezione d'italiano del mio ultimo anno di liceo, che essi avrebbero avuto tanto peso nella mia vita, che ne avrei sperimentato personalmente la dolorosa verità. Si compiono ormai più di settant'anni da quando mi toccò lasciare ogni cosa a me diletta più caramente: la mia cameretta, i miei libri (quanto mi sono mancati!), gli affetti familiari, gli amici, ed un tenero idillio spezzato sul nascere . Non ricordo più con quale mezzo raggiungemmo la stazione ferroviaria di Salonicco, cariche delle nostre gonfie valigie e di un cesto pieno di vivande per un viaggio che avrebbe dovuto durare due o tre giorni, come ci disse il funzionario greco, quello che mi privò dell'ombrello.. e delle galosce. L'unica buona notizia che ci diede fu quella che i nostri uomini, trattenuti nel campo di concentramento di Argo, si sarebbero uniti a noi per proseguire insieme il rimpatrio in Italia. Quella mattina di fine marzo la stazione si riempì di tutte le famiglie della colonia italiana di Salonicco, composta ormai solo di donne, bambini e vecchi. In breve tempo ci fecero salire sulle vetture, tutte di terza classe, ovviamente, senza scompartimenti e con le panche di legno. Un trattamento di lusso, se confrontato a quello riservato, solo pochi anni più tardi, ai deportati che da tutta Europa venivano tradotti nei lager tedeschi. La nostra pena era alquanto mitigata dal fatto che alla frontiera con la Jugoslavia ci saremmo ricongiunti con i nostri cari ed insieme, liberi, avremmo proseguito il viaggio verso l'Italia, la nostra patria. All' ultima stazione greca prima del confine, ci accorgemmo che c'erano italiani provenienti anche da altre città. Finalmente arrivò il tanto atteso treno dei prigionieri e fu un momento di grande gioia e commozione. Le famiglie si ricomponevano con baci, abbracci, carezze e lacrime. Tutti eravamo sempre sorvegliati dai soldati di scorta. Risalimmo sul treno e le carrozze furono piene del brusio di mille voci che si raccontavano tutto quello che era successo durante i mesi di separazione. Si tiravano fuori dai cestoni, come se fosse un pic­nic improvvisato, le ultime cose buone cucinate nelle nostre case, le prime che i nostri uomini potevano gustare dopo ilunghi mesi di fame. Sì, avevano patito la fame e proprio per mancanza di proteine, quasi tutti, avevano edemi agli arti inferiori e portavano le scarpe slacciate.

Perché? Cosa avevo commesso di male per venire così umiliata? Lo capii dopo.

Il tempo passava, ma l'ordine di partire non arrivava ancora. Dopo alcune ore cominciò a serpeggiare una certa inquietudine. Cosa mai era successo? Alla fine ci spiegarono che la nostra espulsione era frutto di un accordo fra Italia e Grecia. L'Italia avrebbe riconsegnato alla Grecia 1000 soldati greci fatti prigionieri sul fronte albanese e la Grecia avrebbe rimpatriato i detenuti civili italiani e le loro famiglie. Lo scambio avrebbe dovuto essere contemporaneo, senonché, chissà per quale motivo, l'Italia consegnò solo 800 prigionieri. I Greci non fecero storie: ci bloccarono per due giorni alla frontiera finché non arrivarono anche gli altri 200 soldati. Pazienza! Il treno fece un'unica fermata a Belgrado e potemmo scendere a fare due passi entro i limiti della stazione per sgranchire un po' le gambe e scambiare in dinari le poche dracme che ci era stato concesso di portare. Mi colpì il gran numero di militari che affollavano le banchine. Incrociai un ufficiale che teneva per mano un bambino di pochi anni. Il piccolo mi sorrise ed io, non conoscendo la sua lingua, stavo rispondendogli con l'offerta di una caramella, quando il padre gli fermò la mano e mi guardò con un'aria tale di disprezzo che mi bruciò di più che se avessi ricevuto uno schiaffo. Perché? Cosa avevo commesso di male per venire così umiliata? Lo capii dopo. Quell'ufficiale aveva visto in me italiana, discesa dal treno dei rimpatriandi, la nemica che minacciava le frontiere della sua patria. Il nostro treno, credo sia stato l'ultimo a varcare la frontiera di Postumia. Il 6 aprile del '41, infatti, l'Italia attaccava la Jugoslavia e si apriva così un altro capitolo doloroso, un altro anello si aggiungeva alla già lunga catena di odio e di sangue. Proseguimmo il viaggio fino a Trieste, ma non per fermarci in quella città. Fummo quindi condotti al Lazzaretto di Muggia.Questo davvero non l'avevamo previsto . Ora, a mente fredda' riconosco che fu un giustificato provvedimento igienico-sanitario, ma in quel momento ci umiliò molto essere trattati come degli appestati. Il procedimento era questo: per prima cosa si entrava in una stanza dove ci si spogliava e si consegnavano gli indumenti che venivano sterilizzati (non lavati); si passava, quindi, in un'altra attigua per fare una doccia calda e saponata; infine, si entrava in una terza stanza per asciugarsi e ricevere gli indumenti sterilizzati. Finita la guerra, appresi che non molto dissimile era il procedimento usato nei lager tedeschi, solo che lì, nella seconda stanza, veniva usato un prodotto diverso  dal sapone e nella terza non venivano riconsegnati gli indumenti ... tanto gli interessati non ne avevano più bisogno, ahimè!

Si saranno chiesti "Da dove vengono 'sti disgraziati seguiti da qualche camion pieno di valigie?" Come mi sentivo male! Già diversa dagli altri, ancora una volta umiliata e soffrivo anche per i miei.

Non ho ricordi precisi sul seguito della mia esperienza al lazzaretto né di come siamo giunti a Verona, ma prima di lasciare quell' "ameno" luogo ci furono elargite 100 lire al capofamiglia e 50 lire agli altri  componenti  del  gruppo familiare. Poi, mi rivedo incolonnata in una lunga fila che avanza lentamente ... mi colpì l'ampiezza della strada o era una piazza? Accanto a me nonna e papà camminavano con fatica. Tutti tenevano gli occhi bassi per non incontrare gli sguardi curiosi ... non dico sprezzanti, anzi, forse compassionevoli, di coloro che sostavano sui marciapiedi a guardarci. Si saranno chiesti" Da dove vengono 'sti disgraziati seguiti da qualche camion pieno di valigie?" Come mi sentivo male! Già diversa dagli altri, ancora una volta umiliata e soffrivo anche per i miei. Molti, molti anni dopo mi è sembrato riconoscermi in una frase di Cesbron, l'autore di "I santi vanno all'inferno", "Cani sciolti senza collare" ecc.: "Ils avaient le regard des bétes battues, des Personnes Deplacées.. Le regard '39-'45: une création de celte guerre et qui survivra longtemps à ses ruines". "Avevano lo sguardo delle bestie bastonate, delle Persone Dislocate. Lo sguardo del '39-'45: una creazione di questa guerra che sopravviverà a lungo alle sue rovine". Per quanto tempo quello sguardo è durato anche nei miei occhi?