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Autore

Mamadou Diakite

Anno

2019

Luogo

Costa d'Avorio

Tempo di lettura

9 minuti

Il candidato

Sabato 18 marzo 2017, sera. Decisero di far partire due gommoni, ci preparammo e mettemmo insieme i nostri ultimi soldi. Li demmo ad uno di noi che restava, dicendogli che se avesse sentito che ce l’avessimo fatta o eravamo morti erano suoi, altrimenti ce li avrebbe restituiti al nostro ritorno. Iniziarono a chiamare i nostri nomi, noi eravamo già in fila, e pure quella sera picchiarono qualche candidato meno fortunato. Caricarono il furgone con dentro i gommoni sgonfi e tutto il materiale, e poi tornò a prendere il primo gruppo, me e i miei amici. Faceva caldissimo dentro, non si poteva respirare. Ancora tutti ammassati e già stanchi. Quando arrivammo, i gommoni erano tanti e già pronti. Noi aspettavamo lì con gli arabi armati e le loro grandi macchine, che parlavano con il nostro trafficante. Ci portarono al nostro gommone in fila di 10. Mentre aspettavo di salire, Bakary mi parlava dicendo che il mare era agitato e non si fidava del tempo, ma io gli dissi di non preoccuparsi e che questa volta Dio sarebbe stato con noi. Mi augurò buona fortuna e io salii sul gommone. Ero uno degli ultimi e mi sedetti vicino al capitano, ogni tanto facevo uscire l’acqua che entrava da dietro. Sempre sussurravo le mie preghiere. Eravamo più di 125 persone, ammassati e spaventati, e ognuno manifestava la sua paura in modo diverso: chi voleva alzarsi, chi sedersi, chi piangeva, chi si lamentava. Io invece pensavo alla mia famiglia, avevo paura ma volevo realizzare il mio sogno. Si deve un po’ morire prima di nascere. Il mare era nero, solo qualche stella illuminava l’acqua, e si sentivano i pianti dei bambini che le loro mamme cercavano di far tacere per non attirare la guardia costiera libica. Pian piano il mare divenne più chiaro, era l’alba, avevamo lasciato il mare libico e adesso eravamo nel Mediterraneo. Blu, affascinante, immenso. Il capitano ci disse di stare tranquilli e zitti, che quello era il momento più pericoloso e che eravamo arrivati. Lasciò il motore e si mescolò in mezzo a noi. Non più di 10 minuti erano passati che vedemmo una grande barca davanti a noi, con dei piccoli gommoni che si avvicinavano pian piano. Era la ONG “SOS Mediterranea”. Le persone sui gommoni parlarono con noi e chiesero se c’erano feriti, malati e donne e bambini. Ci dissero che ci avrebbero salvati tutti e ci diedero dei salvagenti. Davvero? Ce l’avevo fatta? Fecero salire prima le donne e i bambini, e poi toccò a noi.

Ci fecero togliere i vestiti che avevamo addosso e ce ne diedero di nuovi. Solo allora realizzai che indossavo lo stesso vestito da mesi, tutto ciò che mi era rimasto del mio paese.

Sulla barca trovammo un altro gruppo che era stato salvato precedentemente, e prima del tramonto ne salvarono altri cinque. La barca era strapiena. Ci fecero togliere i vestiti che avevamo addosso e ce ne diedero di nuovi. Solo allora realizzai che indossavo lo stesso vestito da mesi, tutto ciò che mi era rimasto del mio paese. Che sollievo poterlo finalmente togliere, mettere i vestiti nuovi fu come se fossi nato di nuovo. Sentivo la stessa gioia di quando compravo un vestito nuovo in Costa d’Avorio. Una donna nel frattempo mi chiese da dove venissi e mi mise un braccialetto di carta al polso con un numero scritto dicendomi di non toglierlo e un medico mi visitò e disse che stavo bene, solo che avrei dovuto mangiare qualcosa.

Raggiunsi gli altri amici, qualcuno piangeva, ma erano tutti contenti. Mi sdraiai a terra a guardare il cielo: “Sono fortunato, sono sopravvissuto, non è ancora il momento di morire”. Tutto il mio viaggio era davanti ai miei occhi, tutte le persone che avevo lasciato anche. Adesso mi restava solo una cosa da vedere per crederci davvero: la terra, la bandiera italiana e degli uomini bianchi che parlano una lingua che non conosco.

Per la sera ci diedero delle buste di plastica da sistemare per terra insieme alle coperte perché faceva molto freddo. Era domenica. Arrivammo al porto di Catania martedì mattina. Ci accolsero la polizia, i carabinieri, i volontari della Croce Rossa Italiana e altre organizzazioni. Aspettammo molto tempo prima di scendere. Dopo una lunga coda, toccò a me. “Eccoci Mamadou.” Un medico mi visitò e poi una volontaria della Croce Rossa mi diede un kit con lenzuola, spazzolino, dentifricio, qualcosa da mangiare e acqua. Poi passai alla polizia per registrarmi: nome, cognome, paese, età e, infine, presero le mie impronte digitali. Aspettammo ancora un po’ e mi fecero delle fotografie, poi mi consegnarono la mia destinazione su un foglietto: Puglia. Non conoscevo questo nome, non l’avevo mai sentito. In Africa avevo sentito parlare solo di Rome, Milan, Naples, Turin... ma la Puglia? Dov’era? Avrei voluto andare in una di quelle città che conoscevo, come tutti, ma non potevo decidere. Vai dove ti mandano. La sera ci misero su un autobus con direzione Puglia. Eravamo solo maschi adulti africani. Nella mente tante domande: Dove mi portano? Dove stiamo andando? Rivedrò i miei amici? A furia di pensare mi venne un gran mal di testa e mi addormentai. Alla prima sosta l’autista dell’autobus ci diede pane con il tonno e acqua. Mangiai e mi rituffai ancora nelle mie domande senza risposta. Guardando fuori dal finestrino vedevo le case e le insegne in italiano che potevo leggere a malapena. Arrivò la polizia che ci scortò alla nostra destinazione finale: il Centro di Accoglienza di Borgo Mezzanone, Foggia. Erano le tre di notte. Alcuni operatori del campo ci fecero scendere e ci accolsero nella sala di identificazione. C’erano già altri che dormivano lì dentro e diedero anche a noi materassi e coperte per riposarci. Da lì cominciava la mia nuova vita.

La vita di un migrante africano non vale nulla durante il viaggio, fino a quando non sei arrivato in Europa. Alla fine io, Mamadou, ce l’ho fatta.

Perché una persona decide di partire, di andare via dal proprio paese? Cosa succederà durante il viaggio? Se arriveremo in italia, se rivedremo la famiglia non lo sappiamo quando partiamo. Ma una volta arrivato, e anche adesso, non mi pento della mia scelta. Se dovessi rifarlo, correrei tutti i rischi che mi sono preso. In Africa puoi avere talento, intelligenza, creatività e morire povero, perché nessuno ti aiuterà a realizzare il tuo sogno, nessuno ti aiuterà ad uscire dal buio. In Europa, invece, se hai delle qualità puoi sfruttarle, sei libero di esprimerti ed ho visto per mia esperienza che ci sarà sempre qualcuno pronto a darti una mano. In Africa c’è tanto egoismo, cattiveria, ipocrisia. Nessuno vuole vedere l’altro diventare qualcuno.

Le ragioni per lasciare il proprio paese sono tante. C’è chi scappa da guerre politiche o tribali e da guerre religiose. C’è chi lo fa per essere libero di esprimere il proprio orientamento sessuale. Poi c’è chi lo fa perché non riesce a trovare una strada, perché restare lì è morire lentamente. Anche andare via significa accettare di poter morire per strada, ma se ce la fai avrai una vita migliore. La vita di un migrante africano non vale nulla durante il viaggio, fino a quando non sei arrivato in Europa. Alla fine io, Mamadou, ce l’ho fatta. In un film ho sentito questa frase: “Ognuno ha il proprio destino ma non tutti decidono di seguirne il sentiero. Io sono fortunato ad averlo fatto”. Per tutti quelli che sono morti in mare, nel deserto, in galera e per quelli che rischieranno la vita ancora, Dio abbia pietà della loro anima.