Questo sito usa cookie di analytics per raccogliere dati in forma aggregata e cookie di terze parti per migliorare l'esperienza utente.
Leggi l'Informativa Privacy completa.

Logo Fondazione Archivio Diaristico Nazionale

Autore

Mamadou Diakite

Anno

2019

Luogo

Costa d'Avorio

Tempo di lettura

10 minuti

Il candidato

Sentii finalmente il rumore di un motore. Era arrivato il fuoristrada. Ci fecero uscire per ammassarci dentro, eravamo tanti e due erano rimasti a terra, così arrivò Sunday con la pistola per ordinarci di trovare posto anche per loro. Ancora deserto. Dopo cinque minuti abbiamo rag- giunto un altro fuoristrada, vuoto: “Jamah Moussa tahal tahal fissa fissa”, il gruppo di Moussa presto presto! Ci divisero in due gruppi. Il viaggio diventò più comodo, ma non bastava a fermare la paura: non sapevamo chi erano, dove ci portavano, non ci fidavamo di loro.

Non si vedeva nulla, si sentiva solo il rumore delle gomme sulla sabbia e delle piccole pietre che sbattevano sul furgone.

Dopo qualche ora ci fermammo in una casa senza il tetto e ci dissero di restare lì, loro sarebbero tornati a prenderci il giorno seguente, dopo la preghiera del venerdì.

[...]

Provammo a riposare tutti, perché nessuno sapeva quanto sarebbe stato lungo il viaggio.

Poco dopo sentimmo un colpo di clacson: uscimmo tutti insieme e trovammo un fuoristrada con due persone che non conoscevamo sopra. Ci dissero di salire e corremmo con tutte le nostre energie. Facemmo un bel pezzo di strada asfaltata; quando fu buio ci portarono da Mohamed (ghanese) e Zuberu (nigerino) dicendoci che loro non potevano procedere oltre.

Un altro fuoristrada sarebbe venuto a prenderci l’indomani.

[...]

Il giorno dopo non venne nessuno a prenderci. Chiamammo Moussa a Sabha e ci disse che l’autista sarebbe arrivato il giorno dopo.

[...]

Nemmeno il giorno successivo venne nessuno a prenderci. Chiamammo Moussa a Sabha e ci disse che l’autista sarebbe arrivato il giorno dopo. [...]

Il giorno dopo non avevamo più nulla. Eravamo disperati. [...]

Ci aiutarono qualche giorno ancora, poi un pomeriggio, dopo mille chiamate fatte a Moussa senza vedere niente cambiare, arrivò un fuoristrada gridando “Jamah Moussa”. Io ero andato in bagno nella boscaglia e quando vidi il fuoristrada cominciai a correre e vidi che gli altri stavano caricando le loro cose pronti per partire. Ho corso con tutte le poche forze che avevo, stavano per partire, sono andato nella casa, ho preso il mio zaino e sono corso sul fuoristrada.

Andammo per un po’, fino a un posto di raduno, ci fecero scendere e aspettare mentre loro organizzavano tra mille chiamate le ultime cose. Ci fecero salire con altri ragazzi; c’erano altri tre fuoristrada. Viaggiamo allineati per qualche ora nel deserto, fino a un recinto: lì ci fecero scendere tutti e divisero chi doveva andare a Tripoli da chi doveva andare a Beni Walid, da chi doveva andare a Sabratha. Poi ci divisero in piccoli gruppi e ci fecero sdraiare dietro il convoglio, coprendoci con un telo pesante e ci portarono in un grande garage, dove i guardiani avevano una piccola botteghina.

Ci fecero scendere; c’erano altre settanta persone. L’autista ci disse che sarebbe tornato l’indomani sera a prenderci. Capimmo che dovevamo organizzarci per restare. Ci dividemmo: i francofoni da una parte e gli anglofoni dall’altra. C’era tutta l’Africa là dentro. Che casino. Ogni tanto il capo guardiano sparava un colpo in aria per chiedere silenzio ma dopo continuava il casino di nuovo. Ogni tanto usciva dalla bottega e veniva verso di noi e picchiava qualcuno così gli altri si convincevano a stare in silenzio per il resto della giornata.

La notte si dormiva per terra, nel buio totale. Dovevamo stare nascosti, la luce non aveva il suo posto. [...]

        “Jamah Moussa!”, una sera la nostra macchina arrivò. Che gioia! Ci sembrava un aereo privato diretto alle Maldive.

Ci disse che non potevano andare tutti, scelse sei di noi e due nigeriani, una ragazza e il suo fidanzato. Agli altri tre del nostro gruppo disse che sarebbe tornato l’indomani.

Ci fece salire sul fuoristrada: le due ragazze davanti e noi nascosti dietro al telone, potevamo appena respirare. Dopo un’ora di viaggio ci portò in un posto dove ci aspettavano due macchine che ci divisero e ci portarono di nuovo nel deserto, ci fecero scendere e ci chiesero tutti i nostri soldi, ma non trovarono niente, li avevamo nascosti tutti. Ci picchiarono, aprirono i nostri zaini, ma niente, ci picchiarono ancora, ma niente. Presero le due ragazze e si allontanarono: le sentivamo gridare aiuto mentre le violentavano, gridavano a noi, ma che potevamo fare con due arabi armati a casa loro? Vedemmo la luce di una macchina che si avvicinava, i due autisti vennero verso di noi e ci chiesero di nasconderci. Le due ragazze non riuscivano a smettere di piangere. La luce si avvicinava, ci nascondemmo, ma ci raggiunsero. Ci fecero delle domande, con noi c’era un ragazzo maliano che era stato nove mesi a Sabha e parlava l’arabo. Poi uscì uno degli autisti: erano amici! Si misero a prenderci in giro perché avevamo avuto paura.

I nostri autisti ci fecero risalire sulle macchine e buttarono via i nostri zaini.

Prendemmo la strada normale. Poco dopo arrivammo in un posto di controllo, non ci fermarono. Eravamo tutti nascosti nelle macchine.

Dopo un paio d’ore presero la strada del deserto; dopo un po’ ci fecero scendere tutti tranne le ragazze, ci dissero di camminare dritto seguendo le impronte delle gomme.

Abbiamo obiettato che le macchine non erano rotte, che potevamo continuare insieme.

Abbiamo camminato, camminato per tutta la notte, senza acqua né cibo. Ogni tanto sentivamo le grida di Adjara e dell’altra ragazza che venivano violentate, poi un rumore di motore e le macchine che ripartivano.

Quando fece giorno all’orizzonte le macchine non si vedevano. C’erano tante strade disegnate sulla sabbia. Non sapendo dove andare continuammo dritto. Poi tornammo indietro e aspettammo dove le strade s’incrociavano. Ci nascondemmo sotto una piccola collina, sempre osservando la strada. Dopo un po’ vedemmo due macchine avvicinarsi, ci nascondemmo perché non sapevamo chi fossero.

Quando si avvicinarono sentimmo gridare i nostri nomi. Li conoscevamo allora?

Uscimmo dal nascondiglio, tornammo nella macchina. Guardai Adjara: era viva, tremava.

Dopo qualche ora raggiungemmo una casa abbandonata e ci dissero di aspettare lì che sarebbe venuta un’altra macchina. [...]

Chiusi gli occhi, non volevo pensare più a nulla, Adjara mi disse che stavo piangendo, non me n’ero accorto. Quando riaprii gli occhi gli altri avevano tutti lo sguardo fisso verso di me, mi chiesero cosa sarebbe successo. Risposi che Dio era con noi, che non ci avrebbe mai abbandonato.

Pregammo in silenzio. Si sentiva solo il rumore del vento caldo. Ogni volta che sentivamo il rumore di una macchina ci veniva una grande speranza, ma non vedevamo niente, finché sentimmo la musica avvicinarsi. Fu Abou ad interrompere il silenzio e disse “Che musica di merda”.

“Where are you going?” La lingua più parlata nel deserto libico è l’inglese!

La musica era sempre più forte, arrivò da noi una BMW nera con una musica araba e due ragazzi armati, uno con una pistola e uno con un kalashnikov poggiato vicino al piede; puzzavano d’alcool.

        “Where are you going?” La lingua più parlata nel deserto libico è l’inglese!

“Sabratha!” Non c’era posto per tutti, tre andarono nel cofano, gli altri ammassati dietro. Guidavano velocemente, avevano fretta, l’autista forse aveva paura, era giovanissimo.

Dopo un po’ ci chiesero se volevamo bere, rispondemmo di si e si fermarono vicino a un negozietto, l’autista scese e tornò con due grandi bottiglie d’acqua... non ci chiese di pagare, si vede che era giovane.

Non poteva aprire il cofano per far bere i tre che erano dentro, perciò si spostò un po’ e fece bere anche loro. Era veramente troppo giovane.

Ci fece scendere e guardammo il mare.Era bellissimo, blu, tranquillo. Restammo senza respiro.

Mentre andavamo all’improvviso dal finestrino vidi il mare. Il mare che porta in Italia. Girò su una stradina e si fermò vicino a una capanna vicino al mare. Ci fece scendere e guardammo il mare.

Era bellissimo, blu, tranquillo. Restammo senza respiro.

Nella capanna c’era un ragazzo ghanese che aveva un’altra macchina, così ci divisero e ci portarono nel loro ghetto. Ci chiesero il nome del nostro corrispondente a Sabratha, il secondo numero che avevo imparato a memoria quando ero partito: Bakary.

Ci avrebbe portati da lui col buio. Ora potevamo riposare un po’. [...]

La macchina tornò a prenderci: uno dei pochi autisti che aveva mantenuto la sua promessa.

Fumava tanto, aveva la bottiglia di whisky lì di fianco e parlava con noi.

“La sofferenza è finita, tra qualche giorno sarete in Italia” ci disse.

Ogni volta che sentivo la parola Italia mi si illuminavano gli occhi, mi veniva una grande forza.

Si fermò davanti a un cancello e clacsonò: un ragazzo africano uscì e aprì il cancello per far entrare la macchina nel cortile.