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Autore

Shlomo Venezia

Anno

2003 -2004

Luogo

-

Tempo di lettura

9 minuti e 30 secondi

Il racconto di Shlomo Venezia

Viaggiammo per dodici giorni e dodici notti lunghi e inesorabili, non ci era permesso neanche dormire in quanto eravamo più di settanta persone in un vagone e non potevamo neanche distendere le gambe.

In cinque giorni di viaggio abbiamo attraversato la Iugoslavia, poi siamo passati attraverso Vienna; ho visto dalla fessura della finestrella la scritta, sui cartelli, Wien. Poi ho visto la scritta Budapest e alcuni abitanti che ci guardavano senza dir nulla, pur sapendo, pur vedendo chi c'era dentro e com'eravamo stipati; da parte loro non c'è stata nessuna reazione, nessuno mai ha sprecato una parola, solo un lungo silenzio. Viaggiammo per dodici giorni e dodici notti lunghi e inesorabili, non ci era permesso neanche dormire in quanto eravamo più di settanta persone in un vagone e non potevamo neanche distendere le gambe. Non sapevamo dove si andava, quando si arrivava, non sapevamo nulla, eravamo completamente ignari. Io ero giovane e non potevo capire a pieno ciò che stava succedendo intorno a noi, ma penso che tutti, come me, non immaginassero che ci fosse tanta crudeltà. Non c’era permesso fare domande, parlare. Nessuno sapeva che si andava a morire. Dopo aver attraversato anche la Cecoslovacchia e la Polonia il convoglio arrivò, l'11 aprile del 1944, senza quasi mai fermarci, fino alla "Judenrampe" di Auschwitz, per molti ultima sosta. Tutti i treni dei deportati arrivavano a destinazione; mai nessuno fu fermato; mai nessuno fu salvato.

Eravamo tanti, un'infinità. Tutti scaricati sulla rampa di Auschwitz. Tutti sfiniti da quel lungo viaggio, affamati, assetati, disperati, increduli e incapaci di reagire.  Non ci fu un gesto di rivolta, un grido; nessuno di noi aprì bocca.

II treno si fermò sui binari e non ripartì più. Subito capimmo che il nostro lungo viaggio era finito, ma non sapevamo che un nuovo viaggio stava per cominciare, ancora più lungo, ancora più faticoso; non sapevamo che con esso finiva la nostra libertà. All'improvviso aprirono gli sportelloni e dentro i vagoni entrò una luce che quasi ci abbagliava.  I tedeschi cominciarono ad urlare, con voci rauche, ordini che stentavamo a capire: -"Schnell, Schnell Juden "-. Dovevamo scendere giù dai treni velocemente, dovevamo sbarcare sulla rampa tra urla di soldati, tra gente spaventata e cani agguerriti che latravano ad ogni nostro movimento. Dai vagoni bisognava saltare e la mia prima preoccupazione fu la mamma che non era anziana, aveva quarantatrè anni, ma da quando era morto il papà si era molto invecchiata. Non era certo come le donne d'oggi. Allora, io scesi con un salto e aspettai che la mamma venisse vicino a me per darle una mano, per afferrare le mie sorelline, ma questo non fu possibile perché appena si scendeva le SS con in mano fruste, bastoni e cani che abbaiavano in continuazione, percuotevano e facevano allontanare senza dare possibilità alcuna di guardare intorno. Eravamo tanti, un'infinità. Tutti scaricati sulla rampa di Auschwitz. Tutti sfiniti da quel lungo viaggio, affamati, assetati, disperati, increduli e incapaci di reagire.  Non ci fu un gesto di rivolta, un grido; nessuno di noi aprì bocca. Intorno regnava solo tanta confusione. Vidi la mamma solo per un momento, lei era sembrata troppo vecchia; le mie sorelle, Marika e Marta, invece erano state considerate troppo giovani. Non potevano lavorare e pertanto furono caricate dentro un camion che le portò alla morte. Erano tutte donne e bambini "inabili" da gasare, da bruciare. Quello fu il nostro addio; né un abbraccio, né un saluto, solo uno sguardo furtivo. Solo questo oggi mi rimane.  Della terza sorella, Rachele, la più grande, io e mio fratello Moise perdemmo, da quel momento, ogni traccia. La prima impietosa selezione cui ho assistito è stata proprio questa: dividere e mettere da una parte le donne, dall'altra gli uomini; io sono andato con i miei cugini e mio fratello. A sua volta un altro ufficiale delle SS faceva segno, con un dito, a sinistra o a destra, che significava morte o vita. Naturalmente allora non ne conoscevamo ancora il significato. In vita rimanevano quanti ritenuti abili e quindi destinati al lavoro; a morte tutti gli altri, immediatamente inviati nelle camere a gas e i loro corpi inceneriti nei forni crematori. Per tante, molte persone il capolinea di quel viaggio fu anche il capolinea della loro vita. Noi siamo stati tra i pochi fortunati, se così si può dire. Avevano bisogno di circa trecento persone, naturalmente i più giovani e con un ordine preciso ci fecero andare a piedi verso destra, cioè verso Auschwitz. Tutti gli altri invece furono inviati a sinistra, direttamente a Birkenau, a tre kmda Auschwitz, il vero campo di sterminio. Dopo averci diviso dagli altri e dopo aver camminato per qualche chilometro arrivammo al campo. La prima cosa che ci colpì fu la scritta sopra il cancello: "Arbeit Macht Frei ",· io la tradussi anche per gli altri che non conoscevano il tedesco: - "Il lavoro rende liberi". 

Era la volta del tatuaggio, della marchiatura, sul braccio sinistro, vicino al gomito, era il numero di matricola.

Ci siamo per un attimo rincuorati, pensavamo realmente di essere arrivati in un campo di lavoro come avevano detto gli anziani nel carcere d'Atene. Non potevamo certo immaginare. Il nostro viaggio era quasi finito, ma ad un tratto un contrordine ci fece trasferire da Auschwitz a Birkenau, sempre naturalmente a passo di marcia. Arrivammo a destinazione che era ormai notte, ma per fortuna non faceva freddo. Dopo aver percorso un lungo viale, la prima cosa che fecero fu quella di portarci in un locale che, venni a saperlo dopo, si chiamava "szauna ". Qui senza una spiegazione ci denudarono, ci disinfettarono e ci rasero a zero, dalla testa, dove però lasciarono una striscia centrale per ogni eventuale riconoscimento in caso di una nostra fuga, fino alle gambe. Non lasciarono nemmeno un pelo, il tutto naturalmnente avvenne in fretta con strumenti rozzi e senza nessuna cura e attenzione. Il nostro corpo fu in pratica raschiato e scorticato senza nessuna pietà, senza una parola. La nostra pelle bruciava come non mai; il nostro era un lamento lento e continuo, tanta era la sofferenza. Poi nudi, con i volti pallidi e sempre più nervosi e inetti, passammo alle docce non certo per alleviare i nostri dolori, ma per la disinfestazione. Ci sembrò in ogni caso una buon'idea, da diversi giorni non ci lavavamo. Alla doccia c'era un SS che stava vicino alle manopole dell'acqua: una fredda e una calda; all'improvviso apriva l'acqua calda, potrei anche dire bollente, che scorticava la pelle ed istintivamente bisognava tirarsi indietro. Allora, veniva vicino con gli stivaloni ed il frustino e cominciava a dare calci e frustate, pertanto si era costretti ad andare nuovamente sotto la doccia. Ma, non bastava questo. Egli tornava indietro, chiudeva l'acqua calda ed apriva quella fredda, gelata. Il tutto durava un bel po', per noi troppo tempo, mentre la guardia rideva e si divertiva. Poi, sempre con il nostro corpo nudo, ci rimaneva solo quello, ci recammo in un'altra sala. Era la volta del tatuaggio, della marchiatura, sul braccio sinistro, vicino al gomito, era il numero di matricola. Con un ago rovente simile ad un pennino, facevano tanti piccoli buchetti, così come capitavano, fino a formare il numero che, una volta tatuato, veniva trascritto su un apposito registro in corrispondenza delle generalità di ogni detenuto. Il mio era il "182727". Il dolore che provai fu così forte che, dopo aver finito, istintivamente cominciai a strofinare la mano sul mio braccio, mischiando sangue e inchiostro. Per un attimo pensai di aver rovinato il numero, il che poteva essere un grosso guaio. Allora, inumidite le dita con la saliva, cominciai a strofinare togliendo il sangue dal braccio, ma il numero era lì chiaro e leggibile come lo è tuttora, indelebile. Dopo qualche ora d'attesa ci consegnarono i vestiti, senza badare alla taglia, senza un ordine preciso. A quel tempo non davano più le divise a strisce, ma il vestiario d'altri prigionieri che erano arrivati al campo prima di noi e ora non c'erano più. Tutto era riciclato. Su ogni indumento era stata ritagliata una finestrella e sopra avevano cucito un pezzo di stoffa a righe; così se qualcuno cercava di fuggire togliendo la pezza rimaneva il buco e quindi era facilmente riconoscibile. Lo stesso succedeva se si lasciava la pezza a strisce. Non c'era per noi alcuna via di scampo. […]

 

 

Solo un ebreo polacco, che parlava yiddish mi prese per un braccio, mi portò vicino ad una finestra e mi fece segno di guardare verso un grande caseggiato, sormontato da un alto camino. Capii subito che da quel camino era passata la mia famiglia, la mia mamma e le mie sorelle che chiedevano soltanto di vivere in pace, fra gli altri uomini.

Non eravamo più liberi neanche di pensare, di parlare, di morire. Tutto il campo era circondato dal doppio filo spinato elettrico. La prima cosa che feci, entrando dentro la baracca, fu chiedere notizie di mia madre e delle mie sorelle; volevo sapere dov'erano, dove le avevano portate. Ma nessuno dei presenti seppe o volle rispondere, per loro la mia fu solo un'inutile domanda. Solo un ebreo polacco, che parlava yiddish mi prese per un braccio, mi portò vicino ad una finestra e mi fece segno di guardare verso un grande caseggiato, sormontato da un alto camino. Capii subito che da quel camino era passata la mia famiglia, la mia mamma e le mie sorelle che chiedevano soltanto di vivere in pace, fra gli altri uomini. Loro avevano ancora una vita davanti. E' bastato solo un gesto per farmi capire. Non occorrevano altre parole. Preso dallo sconforto mi allontanai e attesi dentro la grande baracca, insieme agli altri prigionieri, che si facesse giorno. Ora ero veramente solo, avevo perso le persone più care e più importanti della mia vita.