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Autore

Shlomo Venezia

Anno

2003 -2004

Luogo

-

Tempo di lettura

5 minuti

Il racconto di Shlomo Venezia

Cominciammo a camminare, ci obbligarono a correre follemente perché bisognava allontanarsi il più possibile dalle truppe russe che non dovevano trovarci in vita.

Era il 1945, la guerra stava quasi per finire. L'armata rossa avanzava sempre più verso il campo e la nostra liberazione sembrava ormai prossima, si sentiva nell'aria. Dappertutto si vedevano tedeschi preoccupati. Il grande terzo Reich era ormai sul punto di crollare e pertanto era necessario nascondere le tracce dello sterminio, del genocidio commesso. Ma, puntualmente ogni giorno continuavano ad arrivare carri di cadaveri dai sottocampi vicini, già evacuati; dovevamo noi, del Sonderkommando di Birkenau, liberarci di loro, ma come? Sotterrarli nelle fosse comuni non era più possibile, li avrebbero senz'altro scoperti. I tedeschi ci obbligarono a fare funzionare i forni fino alla fine, fin quando non avremmo cremato l'ultimo corpo. Una mattina, eravamo quasi sul finire, ci ordinarono di smantellare i crematori; non c'era più tempo da perdere, dovevamo fare in fretta, la seconda armata rossa era quasi alle porte. I turni di lavoro, per la distruzione d'ogni ''pezzo" che  potesse testimoniare i crimini nazisti, diventarono massacranti, ma alla fine siamo riusciti a svolgere anche questo compito ordinato dai nostri capi. Finalmente ci portarono in una baracca, potevamo riposare. Prima di andar via le SS ci minacciarono; ancora una volta ci ordinarono di non uscire e di non parlare, presto sarebbero tornati a prendere anche noi, ci avrebbero portato via. Ma dove? Noi non sapevamo, certo non potevamo aspettarci la liberazione.  Abbiamo capito che qualcosa era cambiato, bisognava non farsi trovare nella baracca, era necessario fuggire, se volevamo vivere. Era la sera del 17 gennaio del 1945. Stavano evacuando una fila lunghissima di prigionieri, messi in colonna, fuori, oltre il cancello con la scritta "Arbeit Macht Frei". Noi, anziché rimanere nelle baracche, come c'era stato ordinato, abbiamo preferito mischiarci agli altri. Quando siamo usciti dal cancello, io personalmente, mi sentivo diverso, libero, capivo che potevo farcela, bisognava solo avere ancora un po' di pazienza e continuare ad avere voglia di vivere. Solo questo contava, credere ancora nella vita. Dentro rimasero soltanto i moribondi, quelli che non erano più in grado di reggersi in piedi. Cominciammo a camminare, ci obbligarono a correre follemente perché bisognava allontanarsi il più possibile dalle truppe russe che non dovevano trovarci in vita. Abbiamo percorso circa tre km e mezzo per andare da Birkenau o Auschwitz 2, ad Auschwitz 1. Camminammo per tutta la notte. Eravamo a pezzi, molti cadevano lungo il tragitto, chi aveva male ai piedi, chi aveva perduto gli occhiali, chi aveva freddo, chi era febbricitante, doveva in ogni modo marciare al passo, preciso, allineato, pena la morte. Anche il buio era fitto e la neve scendeva senza sosta, ma questo ci aiutò, ci aiutò a fuggire. I tedeschi, quando hanno scoperto la nostra fuga, hanno cominciato a cercarci disperatamente; cercavano i Sonderkommando evasi, dovevano farci fuori, noi sapevamo tanto, più degli altri, non potevamo rimanere in vita, era troppo pericoloso per loro, avremmo prima o poi testimoniato. Ci cercarono, ma invano. Siamo riusciti a mischiarci in mezzo a tutti quei "cadaveri" ambulanti. Questo ci salvò la vita. […]

Onoriamo e ricordiamo, affinché il ricordo e la conoscenza difendano la nostra società aperta all'amore, alla giustizia, all'uguaglianza. Io ho vissuto proprio per testimoniare e per non dimenticare.

Avevo riacquistato la voglia di vivere, adesso ero finalmente qualcuno, ero un uomo. Avevo anche riacquistato un nome, tutti mi chiamavano Bruno, essendo bruno di capelli e carnagione, non Shlomo, nessuno conosceva il mio vero nome. Adesso ero pronto a vivere, volevo vivere, volevo dimenticare le sofferenze passate, volevo dimenticare tutto e tutti; ma non potevo dimenticare i morti, i visi atterriti di quanti prima di morire chiedevano il perché dovevano morire e chiedevano invano di essere aiutati. Non potrò certo dimenticare mia madre, con il suo sguardo dolce e rassicurante, sempre pronta ad aiutarci in ogni circostanza, non potrò certo dimenticare le lacrime che avvolgevano il suo viso distrutto dall'angoscia di non potere aiutare i suoi figli. Ricorderò per sempre le mie sorelle Marika e Marta; non ho avuto il tempo e la possibilità di salutarle, le ho viste andar via, caricate sopra il camion della morte, così senza un perché, senza un addio. Non potrò dimenticare mio cugino Leone, ricordo ancora, come se fosse ieri, il suo grido d'aiuto, le sue suppliche, la sua disperazione, pensava che fossi importante là dentro, che potessi fare qualcosa, che potessi liberarlo, che potessi ridargli la vita, ma come? In quella situazione nessuno poteva far niente, nessuno aveva il diritto di parlare, nessuno poteva aiutare. Tutti eravamo prigionieri. Solo oggi posso e devo fare. Sono qui con voi, per ricordare non solo i miei cari familiari, ma tutti quegli innocenti che sono morti a causa della barbarie del popolo nazista. Onoriamo e ricordiamo, affinché il ricordo e la conoscenza difendano la nostra società aperta all'amore, alla giustizia, all'uguaglianza. Io ho vissuto proprio per testimoniare e per non dimenticare.