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Autore

Laila Malavasi

Anno

-

Luogo

Reggio Emilia/provincia

Tempo di lettura

8 minuti

[...] Io sono nata

Il salario delle donne, per contratto, era inferiore del 40% a quello dell'uomo. C'erano delle differenziazioni salariali enormi, pur facendo lo stesso lavoro; anche le donne che lavorano in fonderia, facendo lavori pesanti, prendevano un salario inferiore.

Laila è stato il nome di battaglia. Quando noi abbiamo aderito ufficialmente al movimento partigiano, che siamo entrati nell'organizzazione, ognuno di noi doveva avere un nome fittizio, cioè un nome diverso per impedire che tu venissi riconosciuta, scoperta. E ognuno di noi ha preso il nome che ha ritenuto opportuno; allora io avevo letto un libro dove c'era una Laila che era una ribelle indiana e la cosa mi colpì e mi presi il nome di Laila. I nomi russi erano molto di moda, il mio mi pare invece che sia arabo, una cosa del genere; siccome è un nome molto breve e facile da pronunciare, i0 me lo sono sempre tenuto. Nessuno sapeva che mi chiamavo Anita Malavasi, anche quando andavo a far comizi oppure sulle pubblicazioni, ci mettevano sempre Laila Malavasi. Poi, smettendo di lavorare, sono ritornata al mio nome, anche perché in famiglia mi hanno sempre chiamato Anita. Alla commissione femminile del partito sostituivo una compagna che era in stato di maternità; una volta che la compagna è ritornata io avevo frequentato la scuola, m'hanno proposto se volevo andare alla commissione femminile alla Camera del lavoro perché avevano bisogno di una dirigente e io ho accettato. In ogni organismo dirigente c'era la rappresentante femminile perché di fatto, non solo le donne avevano bisogno di imparare a discutere, avendo vissuto fino a quel momento nel mondo che le sottovalutava, ma anche perchè si trovavano in difficoltà a discutere i loro problemi assieme agli uomini. D'altra parte, le donne avevano dei problemi particolari che dovevano essere affrontati, elaborati, e poi portati in seno al sindacato per farli diventare proprietà del sindacato. Questa è la ragione delle commissioni femminili sia nell'ambito del sindacato sia nell'ambito del partito. Tutti i partiti avevano le loro organizzazioni femminili, proprio perché partivano da questa realtà. In Italia così come esisteva una questione contadina e una questione meridionale, esisteva anche una questione femminile, che non era solo una sottovalutazione sul piano culturale, ma era una realtà determinata da una differenziazione anche sul piano della valutazione del lavoro e del salario. Il salario delle donne, per contratto, era inferiore del 40% a quello dell'uomo. C'erano delle differenziazioni salariali enormi, pur facendo lo stesso lavoro; anche le donne che lavorano in fonderia, facendo lavori pesanti, prendevano un salario inferiore. Un’altra differenziazione salariale riguardava il lavoratore giovane che prendeva meno dell’adulto; e, per la ragazza, la differenziazione salariale era ancora superiore perché era riferita al salario della donna. Per cui avevamo dei grossi problemi riguardanti il diritto al lavoro; l'emancipazione della donna è strettamente connessa alla indipendenza economica e alla parità di valutazione delle sue capacità, della sua intelligenza. Assieme a questo ci sono tutti i problemi sociali, perché non possiamo dimenticare che la donna ha anche un compito nell'ambito della famiglia; allora non esistevano delle grandi strutture che sostituissero la donna nell'educazione dei figli, c'era qualche asilo. Ci trovavamo alle volte di fronte a dei problemi urgentissimi come a Montecchio, dove in un'azienda, la Capolo, le donne portavano i loro bambini al pensionato, che allora si chiamava ospizio, dove c'erano delle vecchie nonne che tenevano i bambini perché altrimenti non sapevano a chi affidarli. Se in casa non c'era la suocera o la mamma o la nonna, il bambino non sapevi a chi affidarlo; ecco allora l'urgenza di affidare tutti i problemi connessi al diritto al lavoro della donna. Parallelamente al diritto al voto, alla parità, al giusto riconoscimento nell'ambito della famiglia, nella società, c’era la necessità di lottare non solo per salario ma anche per l’uguale pensione. Inizialmente noi abbiamo trovato delle grosse difficoltà determinate da intenzioni o a resistenze da parte degli uomini; no, le difficoltà le trovavamo sul tipo di educazione che aveva l’uomo, della sua incapacità di vedere la donna capace di dare il suo contributo anche nel dibattito. Così, tutte le volte che andavi alle riunioni, dopo noi donne ci trovavamo e si faceva: “ah, veh, cosa ti han detto a te?”. Man detto: “oh, el tani gani ch'an da dire in questa reunion?”. Loro lo facevano per incoraggiarti ma finivano per scoraggiarti.

Erano le donne della montagna che venivano a lavorare in città e avevano dei grossi problemi perché erano trattate come delle schiave, c'erano degli aspetti che erano veramente orripilanti, a pensarci, come era trattata allora la donna di servizio.

Quindi la vastità dei problemi e l'urgenza di affrontarli, di farli diventare patrimonio dell'organizzazione per la quale tu lavoravi, ci pose - e fui io che feci questa proposta - la esigenza di una grossa iniziativa che ponesse alla organizzazione sindacale di Reggio, ai partiti politici, alle autorità, i problemi femminili. I problemi femminili della provincia erano difformi perché la realtà lavorativa femminile era anch’essa molto difforme. Noi andavamo dalle fabbriche dell'abbigliamento, che era una punta avanzata anche dal punto di vista della maturità politica e dalla capacità combattiva che in certi momenti ha superato quella degli uomini. Poi avevi diciassettemila mondine, la manodopera femminile agricola che trovava da lavorare quelle cinquanta, sessanta giornate all'anno e non di più, e poi, nei periodi di stagione morta, si dedicava a fare qualche lavoro a domicilio di tipo tradizionale, come fare la treccia e il cappello; nella bassa reggiana la coltivazione del pioppo favoriva questa realtà perché le pagliette vengono fatte con il legno del pioppo. Queste donne, d'inverno, con questi lavori, riuscivano a guadagnare qualche cosina che permetteva di comperare il rossetto, la cipria, le calze, insomma, queste cose. Anche se io non so come facevano, considerando che una treccia di paglia è trentadue metri e loro prendevano trenta, trentacinque centesimi, per cui riuscivi a prendere solo una scatola di fiammiferi di legno, perché quella di cera costava cinquanta centesimi. Ecco questo da’ la dimensione. Lavoravano anche alla sera, nella stalla, con gli aghi, la paglia di Firenze, così la chiamavano, e facevano i cappellini, che poi dopo diventavano cappellini eleganti. Avevamo la Lombardini e le Reggiane dove lavoravano un certo numero di donne; poi venivano occupate nella lavorazione del baccalà, a Reggio; nel tessificio a Cavriago, e ancora un enorme di donne che facevano il lavoro domestico. Erano le donne della montagna che venivano a lavorare in città e avevano dei grossi problemi perché erano trattate come delle schiave, c'erano degli aspetti che erano veramente orripilanti, a pensarci, come era trattata allora la donna di servizio. Un’altra questione era quella della legge sulla maternità che stava decadendo. La legge fascista sulla maternità l’avevamo riformata con un decreto legge nel senso che prevedeva tanti giorni di riposo, tante settimane di riposo, sia prima del parto che dopo e noi dovevamo riattivarla. Prendemmo questa iniziativa: preparammo questa conferenza delle donne lavoratrici, il teatro municipale di Reggio era pieno, ci fu una adesione anche da parte degli uomini, meravigliosa. I segretari della Camera del lavoro presero a cuore la questione e portarono a Reggio una miriade di donne; la preparazione aveva avuto una risonanza enorme, perché noi l'avevamo fatto in tutti i comuni, cioè, era stata preparata come un congresso. Nelle fabbriche, ci fu un dibattito enorme che risvegliò l'attenzione di tutte le autorità; i partiti ci tenevano a essere presenti, non solo perché avevano bisogno di popolarità, ma perché il problema interessava.