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Autore

Laila Malavasi

Anno

-

Luogo

Reggio Emilia/provincia

Tempo di lettura

12 minuti

[...] Io sono nata

E’ venuto e ha cominciato a darci qualche spiegazione, a dire che non potevamo lavorare individualmente e disorganizzati, che dovevamo lavorare organizzati; e io fondai il primo gruppo di difesa delle donne della mia via.

Sono entrata nella Resistenza l'otto settembre. La mia maturità politica mi viene da questa via, dove ho ricevuto tante spiegazioni per cui al momento di prendere una decisione è stata una cosa sulla quale non ho nemmeno riflettuto; diventava spontanea, non solo per le cose che avevo capito del fascismo, che poi le avevo capite anche relativamente perché le cose spiegate e non masticate fino in fondo, non è che poi hai le idee chiare. Ecco, sono sempre stata avversa al fascismo proprio per la brutalità, ma non perché avessi una maturità politica; ma soprattutto quello che mi ha spinto a prendere la decisione che ho preso, e che ho anche pagato, è stata una profonda umanità: il bisogno di aiutare gli altri, impedire che della gente andasse in campo di concentramento, soffrisse. Parallelamente abbiamo cominciato ad avere l'orientamento da parte del Partito comunista che diceva: mentre andate dentro la Gil con due vestiti - là ne levavamo uno e lo davamo ai ragazzi perché uscissero - cercate di portar fuori anche le armi, i medicinali. Si portava fuori di tutto e loro poi racimolavano e avevano i loro posti dove mettere queste cose. Io avevo cominciato in questo modo; chi mi ha dato il maggiore orientamento è stato il mio fratello più vecchio; il più piccolo, dopo poco l'otto settembre, ha partecipato anche lui; c'era ancora il mio povero zio, che poveretto camminava male, perché era molto ammalato. Dentro alla ex Gil ci andavano anche dei borghesi a lavorare, e siccome noi di via Dalmazia eravamo vicini, eravamo diventati tutti dei dipendenti delle Gil. Si andava là, donne, uomini, tutti quelli che potevano andare, e cercavano di tirar fuori questa gente per impedire che venisse portata in campo di concentramento. I nostri genitori, che erano stati in campo di concentramento, ci raccontavano le brutalità della prima guerra mondiale, dicevano: “vanno a morir di fame, e poi con questi che sono delle bestie, ecco, voi vedete che cosa gli può accadere”. Si andava non solo all'ex Gil ma anche alle due caserme. Io avevo fatto conoscenza con parecchi ragazzi dell'aviazione che venivano Îì e si operava anche in questa direzione. Mio fratello, il più giovane, dice: “io non ci sto”. Si erano raggruppati per attraversare il ponte e andare a combattere con gli americani, sono partiti in tre. L'altro invece è rimasto a casa, ma era già legato ai gruppi antifascisti; allora di tanto in tanto diceva: “dai, vieni con me che devo andare a prendere della roba”. Io praticamente ho cominciato a lavorare con mio fratello, mi ricordo il primo trasporto d'armi: ho fatto tutta la via Emilia con una borsa con dentro a delle scatole di lampadine delle bombe sips, quelle piccine balilla. Io attraversai tutta la via Emilia con la borsa e mi veniva una paura delle bombe che non dico, perché secondo me se picchiavano contro la bicicletta scoppiavano; che stupida, però di fatto non ho rinunciato. Dopo, anche i volantini c'era da distribuire. Poi, mio fratello, nella primavera del '44 è andato in montagna; lui è scappato perché, siccome lavorava dentro le scuole, partecipava alla pubblicazione di un giornalino; si vede che aveva sentito che c'era pericolo che lo prendessero. Io sono rimasta a casa; allora Torelli, che sapeva che ero molto intraprendente, mi ha fatto conoscere Paolo Davòli, che è il martire che abbiamo a Reggio. E’ venuto e ha cominciato a darci qualche spiegazione, a dire che non potevamo lavorare individualmente e disorganizzati, che dovevamo lavorare organizzati; e io fondai il primo gruppo di difesa delle donne della mia via. Una ragazza del Bloc ci portava la stampa e l’informazione, cioè volantini, cose del genere. Poi abbiamo fatto in tempo a fare due riunioni, dove veniva un dirigente di questi antifascisti, che io non so se era comunista, erano del comitato di liberazione, loro dicevano. Ci dicevano di raccogliere roba; noi ci davamo da fare: soprattutto medicine, indumenti, cose del genere; le raccoglievamo poi le venivano a prendere. Poi, in quel periodo, prima ancora che mio fratello andasse in montagna, ho conosciuto la famiglia di Gorbia, che veniva a prendere la roba che noi racimolavamo. Mi ricordo che papà ci aveva insegnato una cosa, dice: “voi le pallottole le mettete dentro le bottiglie”; siccome lui lavorava il vino, in cantina avevamo delle pile di bottiglie. Ci aveva fatto un posto dove noi infilavamo le bottiglie piene di pallottole e quando questo veniva, sembrava che comprasse tre o quattro bottiglie di vino; se ne andava con le bottiglie di vino che erano piene di pallottole. L'ingegno, quando sei in una certa situazione, si acuisce. In giugno mio fratello ha avuto uno sbandamento, è venuto a casa, è stato a casa pochi giorni, poi è tornato su in montagna. Nel periodo che era a casa, siccome si erano già formati i Gap e i Sap, dovevano fare un'azione e avevano bisogno di una rivoltella. Lui mi dice: “vai su nel tal posto, mi vai a prendere la rivoltella”. lo parto, io e mia cugina, e andiamo su; prima di arrivare alla casa Roma incontro un partigiano che mi ferma e mi vuole i documenti; io gli presento i documenti e lui dice: “ma che cosa vieni a fare?”

Dico: “ma io vado a prendere delle uova”. Mi voleva portare in carcere. Dico: “no”. Allora lui mi ha fatto vedere il cartellino da partigiano e allora ho detto: “guarda che io sono venuta su per prendere un'arma alla casa Roma che serve ai gap a Reggio”. E allora dice: “ti porto alla casa Roma”. Però quel fesso ha preso il mio nome e l'ha scritto e ha messo anche il numero della carta d'identità. Quando arrivo alla casa Roma, l'arma non c'è, ed è stata la mia fortuna; lui, dopo una settimana lo hanno arrestato e c'hanno trovato il mio nome in tasca.

C’è il verbale dove noi abbiamo firmato e dove diciamo queste cose. Certo, io ho dovuto dire che l'arma doveva andare a mio fratello perché lui mi aveva detto che andava a mio fratello l'arma. Però mio fratello era già in montagna e si salvava.

Ecco, allora i0 e mia cugina, siamo state arrestate, siamo state interrogate per una giornata intiera; sempre a negare,; per quattro o cinque ore abbiamo sempre raccomandato dicendo: “ma no noi siamo andate a prendere delle uova, ma lo domandi alle contadine, noi siamo venute giù con le uova”. Il fatto che avevo il ristorante mi giustificava, ho detto: “mi potete condannare per il mercato nero semmai, però per il trasporto di armi no”. Allora quello, il partigiano che mi aveva fermato in montagna, viene e dice: “no e spiega tutto. Allora io sono andata in bestia e ho detto: “scusami veh, sei un delinquente perché non è vero che io sia venuta su a prender delle armi, tu m'hai detto che siccome ero lì tu avevi bisogno che io portassi giù un'arma”; dico: “io povera meschinella cosa faccio di fronte a un uomo armato? Io ho dovuto accettare quello che tu mi hai detto, e se vuoi saperlo, quando ho visto che l'arma non c'era, io felice come una pasqua. L'arma non l'ho portata giù”. Quando ti trovi in difficoltà, puoi essere la cretina più grossa del mondo, ma riesci, cioè lo spirito di conservazione ti fa tirar fuori le cose; se qualcheduno mi avesse detto che cosa avrei fatto, che cosa avrei pensato in quel momento, non te lo so dire; però in quel momento l'ho presa così. C’è il verbale dove noi abbiamo firmato e dove diciamo queste cose. Certo, io ho dovuto dire che l'arma doveva andare a mio fratello perché lui mi aveva detto che andava a mio fratello l'arma. Però mio fratello era già in montagna e si salvava. Allora, tenendo conto del fatto che abbiamo firmato il verbale, hanno detto: “andate a casa però non muovetevi”; io ho detto: “ma dio buono, io ho paura dei bombardamenti, voglio andare da mia cugina — mia cugina era segretaria del fascio di San Bartolomeo - , dicono: “sì, allora lì ci può andare”. L'altra mia cugina che era lì con me, che eravamo tutt'e due colpevoli, doveva andare a Ròncolo; dicono: “si, va bene però domani mattina ricordatevi che dovete essere a Reggio”. Noi, presa la bicicletta, abbiamo scritto una lettera dove chiediamo perdono ai nostri genitori e diciamo che andiamo a cercare i colpevoli, perché noi non abbiamo colpe: balle di questo genere; ce l'ho ancora la lettera, e poi siamo scappate. Siamo scappate su in montagna. Però anche lì l'emozione! Tu per tutta la vita sei stata nella famiglia, hai vissuto la vita della famiglia, la protezione della famiglia. Io mi ricordo sempre che avevo messo la mia bicicletta sotto il letto della perpetua del prete di Ròncolo, e aspettavo mia cugina che era andata a salutare la mamma, perché lei era lì a Ròncolo. Mentro ero sdraiata sotto un pino, vicino alla chiesa, lì in mezzo all’erba, mi dicevo: “ma che cosa troverò mai di là”. Fino ad allora ero arrivata fino a Currada, già facevo la staffetta già tra Reggio e Currada, portavo armi, e ho avuto anche tante altre avventure: portavo armi a Reggio e al distaccamento Don Pasquino; avevo già conosciuto quelli del distaccamento Rosselli e sapevo che dovevo andar Îì; però non andavo oltre Canossa. Ecco, a un determinato momento ti trovi in quella realtà e i pensieri che puoi avere non sono sempre troppo allegri. Poi siamo andati su alla Noce, e abbiamo dormito lì alla Noce. Pinetti che era un compagno partigiano, ci ha chiamato al mattino, alle tre e mezza; siamo scesi nella Modolina e siamo andati fino a Calandola, dove c'era il distaccamento Rosselli. Lì, è stata un'altra avventura: eravamo in mezzo a questo fiumiciattolo che saltavamo da una pietra all'altra, c'è un contadino che fa: “Ma in do ndé vo altri du?”. Dico: “andiamo su a prendere delle uova” e lui: “Ma mi sa che v siti persi”. Cioè, mi sembra che abbiate perso la strada; chissà che faccia che avevamo! Allora ci ha insegnato la strada. Prima d'arrivar su c'è arrivata incontro una pattuglia partigiana, c'è venuta a prelevare; il contadino sapeva, lui era uno che già lavorava per i partigiani. E siamo arrivati al distaccamento Rosselli ecco, lì comincia l'avventura partigiana. Sono stata su nove mesi, sono andata su alla fine di agosto e sono venuta giù il venticinque aprile, infatti io c'ho nove mesi riconosciuti. Quando sono tornata giù ero una persona diversa. Arrivi e questi ti dicono: “dunque da questo momento tu sei un partigiano, perciò qui non esiste differenza tra uomo e donna, tu mangi con noi, dormi con noi”. A casa tu eri un oggetto di interesse da parte dell'uomo, e come dire, alle volte ti trovavi anche in difficoltà. Sei lì vai a dormire sulla paglia. Nel distaccamento Rosselli, il più vecchio avrà avuto sì e no venticinque anni, erano tutti ragazzi giovani. lo mi ricordo che quella sera dormii tra un carabiniere sardo e un altro ragazzo partigiano; ma abbiam chiacchierato tutta notte: ognuno raccontava, così, le proprie emozioni, queste cose qui; ma che ci sia saltato in mente, non so, di allungare la mano! Dormivamo in tre o quattro sotto un panno, perciò non è che c'erano dei grandi spazi; è che ti rendi conto che è una realtà diversa, cioè ti rendi conto di trovarti in un mondo diverso, in un mondo che forse, come dire, aspiravi ad arrivare; dove ti considera un essere umano, ti rispettano, non ti mettono in difficoltà. Questa è la prima emozione. Di giorno ti insegnano ad adoperare le armi, perché io ero combattente. Mia cugina no, lei dopo è andata a scrivere a macchina, è andata impiegata, lei aveva anche un altro carattere. Ma io, e anche lei, abbiamo imparato a conoscere le armi: smontarle, montarle, pulirle, adoperarle, sparare. Questa è la prima lezione che ti fanno, poi, la notte di guardia.