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Autore

Piero Campisi

Anno

1986

Luogo

Brescia

Tempo di lettura

7 minuti

La Pecheronza

Potevo avere dieci o undici anni (era il '38 o il '39) e con mia madre, Mariuccia e Liliana stavo trascorrendo le vacanze estive a Bovegno. Fino qualche tempo fa circolava fra le cose di famiglia una foto di quel periodo. Mia madre, quasi di profilo dal lato preferito, quello in cui i capelli le facevano una grande onda; Liliana, la sorella più piccola, con un fioccone bianco, enorme, in testa, che le conferiva un solenne aspetto da uovo di pasqua; ed io, con le braghette corte, la maglietta a righe, un ciuffo di capelli neri sulla fronte, proprio dove ora impazza il vuoto, le orecchie a sventola e due occhi grandi scuri e quasi a mandorla (non per nulla i miei compagni di gioco ma chiamavano el cines). Tutti e tre, seduti su una panchina del parco di Platani e di tigli che sorgeva nella parte alta del paese. Mancavano da quel ritratto, mio padre, rimasto a Brescia per il suo lavoro e Mariuccia, l'altra mia sorella, la più grande, che, probabilmente, era l'autrice dell'istantanea familiare.  Era il '38 o il '39, dicevo, e quindi la tragedia stava per arrivare.  "Si parla di guerra -scrissi in un biglietto spedito in quei giorni ad un amico a Brescia - sembra imminente: pensa, che gioia!".  Per quel biglietto scoppiò una grana mica da poco. Sequestrato al destinatario dai genitori, finì poi nelle mani di mio padre e di mia madre. "Incosciente, non sai che le guerre sono una calamità? Non sai che si può morire tutti? Che ci sarà la fame, che d'inverno si dovrà soffrire il freddo e che potranno scoppiare delle epidemie? Mi ricordo, nella grande guerra, quando arrivò la spagnola...".  E qui veniva il racconto sulla spagnola, che avevo già sentito un'infinita di volte; fra l'altro, detto fra parentesi, non avevo mai potuto capire perché l'avessero chiamata così. 

Coi ragazzini della mia età ero abituato a farla piuttosto da padrone; la prepotenza, debbo riconoscere, era nella mia naturale inclinazione.

Io, allora, studiavo poco, giocavo o sognavo ad occhi aperti, Quando non facevo né l'una né l'altra cosa, leggevo avidamente le storie dei corsari del Salgari, che allora era il meglio che si potesse trovare sulla piazza. Coi ragazzini della mia età ero abituato a farla piuttosto da padrone; la prepotenza, debbo riconoscere, era nella mia naturale inclinazione. A scuola avevo creato una banda della morte di cui senza esitazione mi ero autoproclamato comandante. Dettavo ordini oltreché a voce, incautamente, persino scritti; addirittura avevo costruito dei timbri rudimentali ricavati dalle gomme per cancellare con lo stemma del sodalizio, il teschio, e la dicitura: "Il Capo". Sicché, quando la professoressa Lumini scoprì l'organizzazione, non le fu difficile risalire rapidamente fino al vertice massimo. Il quale vertice, cioé io, fu chiamato seduta stante alla scrivania e davanti a tutta la classe, senza che venisse pronunciata parola, preso sonoramente a sberle, cosa che non ha giovato mai al prestigio di un capo e, momentaneamente, non giovò neppure a me. Questo infortunio portò rapidamente allo scioglimento della banda della morte; ma, così come morto un papa se ne fa un altro, pochi giorni dopo, gettavo le basi della banda Milano, reclutando i ragazzini di Via Milano e di Via Martino Franchi, l'antica Campo Fiera, che erano le strade del mio piccolo regno. Si andava ad esercitarsi militarmente nelle trincee antiaeree che erano state scavate in un prato abbandonato di fronte all'ingresso della fabbrica Tempini. Sembrava che quelle trincee, assolutamente inutili, fossero state fatte solo per il divertimento di noi ragazzini. Miglior campo di battaglia non avremmo potuto trovare ed io, durante quei giochi, ero tanto felice che non sarei mai rincasato. Neppure gli stimoli della fame, qualche volta, riuscivano a piegarmi e così mia madre, quando si approssimava l'ora della cena, doveva mandare Mariuccia in avanscoperta.  "Piero, vieni a casa", gridava Mariuccia, naturalmente quando riusciva a localizzare il luogo in cui mi ero mimetizzato per ragioni militari.  "Vieni a casa: altrimenti verrà a prenderti papà".  Sapevo, comunque, che prima che questa minaccia fosse attuata, Mariuccia sarebbe venuta almeno altre due volte. Dopodiché, la prudenza consigliava di interrompere il gioco, dato che mio padre non scherzava e i suoi scapaccioni lasciavano il segno.

Uno di questi aggressori, che era stato mio grande amico, riuscì per settimane a rinviare l'incontro decisivo perché non appena mi avvistava fuggiva come una lepre, per lo più riparando a casa sua, che si trovava al quarto piano di una delle case popolari di Via Martino Franchi.

Alle botte ci ero abituato. Quelle di mia madre sembravano quasi carezze; quelle di mio padre ben più temibili. In mezzo stavano le botti dei miei amici o nemici. Io ne davo tante e he prendevo un'infinità.  Ero forte come un torello e sapevo pestare, sicché qualche volta riuscivo a farcela nei duelli individuali/anche coi ragazzi più grandi di me. I coetanei, normalmente, subivano le mie prepotenze proprio per paura fisica. Capitava anche, qualche volta, che gli schiavi si coalizzassero superando le divisioni. Allora mi prendevano in sei o sette e mi pestavano scientificamente, da capo a piedi, facendomi tornare a casa insanguinato e con i vestiti laceri. Le mie vendette, é chiaro, erano atroci e nessuno, anche a distanza di tempo, riusciva ad evitarle. "Lunga, ma sicura", poteva essere il mio motto. Prendevo gli aggressori uno alla volta e ricambiavo il trattamento mettendoci il massimo dell'impegno. Uno di questi aggressori, che era stato mio grande amico, riuscì per settimane a rinviare l'incontro decisivo perché non appena mi avvistava fuggiva come una lepre, per lo più riparando a casa sua, che si trovava al quarto piano di una delle case popolari di Via Martino Franchi. Finché riuscii ad afferrarlo, al termine di uno di quegli epici inseguimenti, sul pianerottolo del terzo piano, e ne venne fuori un selvaggio incontro a base, soprattutto, di colpi proibitissimi. Fu però un incontro che restò nella piccola storia dei ragazzi di Via Milano. Ero fiero della mia forza, del mio scatto, del prestigio che l'uno e l'altro mi conferivano. Non camminavo mai: correvo macinando chi sa quanti chilometri al giorno sempre di corsa. Avevo, soprattutto nelle gambe, dei muscoli d'acciaio e me ne compiacevo. Ma, stranamente, ero anche un sognatore. Quando non potevo, per mancanza di legionari, condurre eserciti alla guerra e quando non avevo sotto mano neppure un libro o un giornalino, allora mi sedevo per terra in qualche angolo remoto e cominciava a sognare ad occhi aperti.