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Autore

Piero Campisi

Anno

1986

Luogo

Brescia

Tempo di lettura

9 minuti

La Pecheronza

Anche la mattina del diciannove aprile 1943, splendidamente radiosa di sole, fu la stessa cosa; ma, da un folto gruppo di ciclisti, all'altezza dei giardinetti pubblici dov'era stata costruita la nuova sede del Fascio, si levò un Fischio alto, possente, prolungato. Un fior di Fischio.

Alle otto meno un quarto, ogni mattina di giorno feriale, via Milano per cinque minuti si riempiva di ciclisti. Era la folla degli operai che andava al lavoro. Chi alla Breda, scendeva da piazzale Garibaldi in direzione di Ponte Mella; chi alla Tempini, imboccava la via Martino Franchi, chi alla OM o alla Sant’Eustacchio, svoltava in via Camozzi. Anche la mattina del diciannove aprile 1943, splendidamente radiosa di sole, fu la stessa cosa; ma, da un folto gruppo di ciclisti, all'altezza dei giardinetti pubblici dov'era stata costruita la nuova sede del Fascio, si levò un Fischio alto, possente, prolungato. Un fior di Fischio. Un attimo di silenzio e poi a quel fischio se ne unirono molti altri, altrettanto possenti e prolungati. Sui marciapiedi, le donne con la borsa della spesa in mano restarono semplicemente a bocca aperta. Lucio Gasparini, guardia nazionale repubblicana che a pochi metri di distanza si trovava in servizio di sentinella davanti alla sede del Fascio trasformata in caserma, restò di sasso. Uscirono altre guardie e tutte avevano le facce allarmate.  "Che si fa?", domandò Lucio Gasparini.  "Che voi fà - rispose Mario il Toscano - si piglia e si intasca".  Ma restarono tutti molto scossi e la battuta del Toscano non riuscì a rincuorarli. Quella stessa mattina, a pochi chilometri dalla città. Sul Sonclino, nove partigiani morivano ancora in una battaglia coi fascisti e fra di essi c'era anche Giuseppe Gheda, figlio del meccanico di via Martino Franchi, mio compagno di giochi fino a un paio di anni prima.  Con l'avvicinarsi della primavera le speranze che la guerra finalmente si concludesse, si erano comunque fatte più concrete. Tutti i Fronti erano in movimento, compreso quello italiano, ed era ormai una gioia ascoltare le notizie di Radio Londra. Ad est, l'Armata Rossa filava come il vento e stava addirittura arrivando sul suolo tedesco e a noi queste notizie allargavano il cuore. Fra poco, anche i tedeschi avrebbero provato il piacere della guerra in casa propria.  In aprile fu ormai chiaro che il conflitto era addirittura agli sgoccioli. "La và a pochi", si diceva e gli occhi si riempivano di gioia pensando che la fine della guerra ci avrebbe soprattutto liberati dall'incubo della morte, restituendoci inoltre il grande piacere di tornare liberi e in pace. 

Cominciammo a ripetercelo, vicendevolmente, dappertutto, per convincerci fanciullescamente che fosse proprio vero. Sorridenti, magri, ci abbracciavamo per le strade, ballavamo e cantavamo.

Ma anche le ultime ore furono pesanti e, per molti, addirittura tragiche. Le truppe tedesche erano in ritirata su tutto il fronte italiano e, passato il Po, questa ritirata ordinata e controllata aveva cominciato in molti posti a trasformarsi in vera e propria fuga. Alcune formazioni, in pieno caos, si dissolvevano; altre tenevano duro cercando di raggiungere isolatamente i confini e provocando, inevitabilmente, altre vittime. L'ultimo tedesco che noi catturammo vicino alla città, sulla strada statale per il Garda, aveva invece saggiamente tentato di risolvere il problema da solo. Abbandonato il suo reparto, aveva buttato le armi in un Fossato della bassa bresciana, si era strappato le mostrine e le decorazioni e, con una bicicletta da donna rubata in una cascina, viaggiava in direzione nord pedalando a più non posso. Tentava forse di passare per un turista.  Quando lo fermammo, allargò rassegnato le braccia come un atleta sfortunato costretto al ritiro.  "Ce l'hai una sigaretta?", mi domandò scendendo dalla bicicletta, col fiato grosso. Aveva quarant'anni, era di Norimberga, aveva moglie e due figli di nove e sette anni; tutto sommato gli era andata ancora bene e credo che lui se ne rendesse perfettamente conto. Non aveva affatto l'aspetto turbato o spaventato e quando, diversi giorni più tardi, lo consegnammo alle forze di sicurezza alleate, ci baciò e abbraccio come fratelli. Nel breve periodo che aveva trascorso con noi si era dato da fare come interprete, come cuoco, come autista e come meccanico. L'ultimo morto in guerra lo vidi invece in via Milano. Era un artigliere fascista. Con altri tre, a bordo di un blindato, aveva tentato di percorrere la via per andare chissà dove. Un tentativo da disperati, conclusosi proprio davanti al portone di casa mia. Dal blindato erano partiti alcuni colpi di cannoncino; ma una fucilata, sparata da una finestra, infilando in pieno la feritoia, aveva fulminato l'artigliere. Sotto il peso di quel corpo inerte, la canna del cannoncino si era levata verso il cielo e l'ultimo proiettile aveva colpito, frantumandolo, il balcone del dentista dottor Fonzar, al secondo piano, finendo la sua corsa in camera da letto. Il dentista si affaccio allarmato. Dal blindato, che si era fermato di traverso alla via, stavano uscendo gli altri tre fascisti, bianchi in volto, con le mani in alto. La guerra, anche per loro, era finita. 

"La guerra é finita".
Cominciammo a ripetercelo, vicendevolmente, dappertutto, per convincerci fanciullescamente che fosse proprio vero. Sorridenti, magri, ci abbracciavamo per le strade, ballavamo e cantavamo. Qualcuno prendeva di mira i simboli più appariscenti del Fascismo e così venne abbattuto anche l'omone di marmo di piazza della Vittoria, quello a cui era già stato tagliato il pisello. Le strade della città erano piene di gente armata, partigiani o operai. Molti avevano i fazzoletti rossi al collo; altri, pochi, verdi. Ogni tanto i colpi di qualche cecchino isolato scatenavano un Pandemonio. I prigionieri fascisti venivano portati in Castello; quelli tedeschi al Foro Boario. Fra i Fascisti, conobbi Boccasile. 
"Ragazzo, vuoi che ti Faccia la caricatura?", domandò. 
"Risparmiati la fatica", risposi. E gli voltai le spalle. Ma alcuni suoi manifesti non li avrei mai potuti dimenticare. 

 

Arrivarono gli americani. Una grossa colonna corazzata si affaccio alla città verso San Polo. La fanteria, a bordo di autocarri, si insediò nelle grandi caserme tra Porta Milano e Porta Trento. E subito cominciò un gran traffico.

Andai in questura, non ricordo più per quale motivo. In alcuni uffici sembrava che Posse passato un ciclone. I cassetti erano aperti, timbri e carte erano sparsi dappertutto e gli schedari saccheggiati. Mi capitarono sotto il nso alcuni fogli battuti a macchina su una carta grigiastra. "Stamattina alle otto Gabriele D'Annunzio è uscito in macchina da solo. Diretto alla stazione FFSS ci Desenzano...". 
Copie dei rapporti dei poliziotti di servizio al littoriale. C'erano anche i testi di telefonate fatte o ricevute: evidentemente Mussolini aveva voluto controllare anche il telefono del poeta. Avevo fuggevoli ricordi D'Annunzio a Brescia. Una volta lo avevo incrociato sotto i portici di corso Zanardelli mentre era in compagnia di una vistosa signora. Un'altra volta lo vidi mentre, da solo, molto invecchiato, scendeva con qualche difficoltà da un bolide rosso, sportivo, in piazza Duomo. Non ero mai riuscito a leggere più di dieci pagine di un suo romanzo. Ad una rappresentazione al Teatro Grande della "Fiaccola sotto il moggio", mi ero mezzo addormentato per la noia. Invece amavo molto la sua poesia che mi commuoveva ed esaltava e mi sarebbe piaciuto essere un attore per poterla convenientemente recitare.  Arrivarono gli americani. Una grossa colonna corazzata si affaccio alla città verso San Polo. La fanteria, a bordo di autocarri, si insediò nelle grandi caserme tra Porta Milano e Porta Trento. E subito cominciò un gran traffico. 
"Io ti do, tu mi dai". 
Il trenta aprile, un amico ci invitò nella sua trattoria, fra Iseo e Sulzano, per una "vera cena da tempo di pace". Con un autocarro Chevrolet, che i tedeschi avevano portato via agli americani e noi ai tedeschi, ci avviammo sulla strada per il lago; ma giunti sulla sommità della sa-lita, poco prima che la strada inizi a scendere verso le torbiere, un  ritorno di fiamma ci incendiò il motore. Addio Chevrolet. Proprio in quel posto, alcuni mesi prima, avevamo teso un'imboscata ad un automezzo militare fascista, sul quale viaggiavano alcuni alti ufficiali. Per un pelo ci era invece sfuggito il ministro Ricci che, da furbo, era passato sotto i nostri occhi e i nostri fucili a bordo di una macchina civile che recava vistosi contrassegni sanitari, del tipo che soltanto alcuni medici avrebbero potuto usare per il pronto soccorso.  Arrivammo comunque lo stesso nella trattoria del nostro amico, facendo autostop. In attesa dei piatti sostanziosi della cena, l'oste portò sui nostri tavoli grandi taglieri con salame che non vedevamo da anni e dell'ottimo pane bianco Fresco. Un sogno da mille e una notte. Quella sera di salame ne mangiai così tanto e così tanto che poi, per oltre vent’anni, non riuscii neppure a sopportarne il profumo.